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Pubbl. Mar, 25 Set 2018

I criteri oggettivi di imputazione della responsabilità all´ente: le nozioni di interesse e vantaggio

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Davide Fricchione


Responsabilità amministrativa ex crimine degli enti: i criteri di imputazione oggettivi.


La responsabilità della persona giuridica è subordinata, in particolare, alla condizione che il reato sia commesso nell’interesse o a vantaggio della stessa, secondo quanto dispone l’art. 5 comma 1 d.lgs. 231/2001; il capoverso esclude la rimproverabilità dell’ente nell’ipotesi in cui l’illecito sia stato posto in essere nell’esclusivo interesse dell’autore materiale o di un terzo. Stante l’art. 12 comma 1 lett. a, la responsabilità continua invece a sussistere – con sanzione pecuniaria tuttavia ridotta della metà – ove il reato sia stato finalizzato al perseguimento del prevalente interesse della persona fisica o di un soggetto terzo e l’ente non ne abbia ricavato vantaggio o questo sia stato minimo. È irrilevante, ai sensi dell’art. 8 comma 1 lett. a, che l’autore del reato sia stato individuato.

Le disposizioni citate delineano una gradazione delle conseguenze sanzionatorie a carico dell’ente, modulate sulla base del maggiore o minore “coinvolgimento” della societas nella commissione del reato. L’agire nell’interesse dell’ente attua il rapporto di immedesimazione organica, per il quale la persona fisica altro non è che la longa manus della persona. Duplice il filone interpretativo sui temi: da un lato, i sostenitori della cd. “teoria dualistica” ritengono che interesse e vantaggio costituiscano, ognuno, un criterio ascrittivo autonomo; dall’altro, coloro che propongono la “teoria cd. monistica”, affermando l’identità dei parametri indicati. La reductio ad unum dei criteri di imputazione oggettiva si muove su diversi piani di analisi: l’uno, per così dire, “processualistico”, l’altro “sostanzialistico”. Quanto al primo, è la linea dell’art. 5 del decreto a fondare l’intero impianto teorico: la norma esclude la responsabilità dell’ente nelle ipotesi in cui il reato sia stato commesso nell’esclusivo interesse dell’autore materiale o di terzi. Il capoverso ha introdotto una vera e propria «asimmetria»: l’irrilevanza del vantaggio obiettivamente conseguito dall’ente ove non sia derivato da una condotta geneticamente motivata dal conseguimento dello stesso. E la ratio dell’esclusione è data dalla rottura, in ipotesi del genere, del rapporto di immedesimazione organica. Dalla norma si desume che l’unico criterio di collegamento effettivamente tale è l’interesse, mentre il vantaggio costituisce una sorta di variabile causale che potrà anche darsi concretamente senza che si debba ipotizzare una responsabilità da reato della persona giuridica.

La portata sostanzialmente unitaria è sostenuta poi da quella dottrina che interpreta l’interesse ed il vantaggio come termini equivalenti, ovvero sinonimi, ovvero ancora un’endiadi che addita un criterio unitario, riconducibile ad un “interesse” dell’ente inteso in senso obiettivo. La finalizzazione del reato nell’interesse tanto dell’ente quanto della persona fisica o di terzi non è, invece, sufficiente per il riconoscimento dell’attenuazione di pena in favore della societas: il vantaggio conseguito deve, in queste fattispecie, essere di minima importanza. Ad un interesse parziale dell’ente consegue la riduzione di pena solo nel caso in cui lo stesso non abbia conseguito un vantaggio di notevole entità; nel caso opposto, invece, il nesso di ascrizione della penale responsabilità in capo alla persona giuridica opera nella sua massima estensione, sicché l’immedesimazione organica tra ente e persona avviene non solo per il tramite dalla finalizzazione soggettiva della condotta, bensì pure in ragione del dato oggettivo dell’utilità conseguita. Deve ancora sottolinearsi come l’impostazione dualistica si radichi direttamente nella relazione ministeriale al decreto legislativo, la quale esplicita che «il richiamo all’interesse dell’ente caratterizza in senso marcatamente soggettivo la condotta delittuosa della persona fisica e che “si accontenta” di una verifica ex ante; viceversa, il vantaggio, che può essere tratto dall’ente anche quando la persona fisica non abbia agito nel suo interesse, richiede sempre una verifica ex post». Inoltre, si afferma che il legislatore, nel momento in cui ha inteso riferirsi ad un beneficio puramente monetario, si è espresso in termini di “profitto”; pertanto dovrebbe ritenersi che il vantaggio ecceda la mera natura patrimoniale.

Nel solco di tale linea di pensiero si è collocata anche la giurisprudenza di merito, la quale ha avuto occasione di affermare che «il vantaggio della società deve essere valutato secondo modalità astratte ed indirette e non esclusivamente secondo modalità connesse al definitivo incremento patrimoniale». Il punctum dolens della ricostruzione concerne la definizione di interesse fornita: inteso nell’accezione economica richiamata, esiste infatti il rischio che il parametro de quo vada a coincidere con il canone del vantaggio. Il rilievo appena menzionato circa il carattere puramente patrimoniale dei requisiti in esame introduce il discorso circa la necessità, sottolineata da buona parte della dottrina, di ridimensionare il riferimento al momento volitivo-finalistico nella determinazione dell’interesse, dovendosene, viceversa, proporre una lettura obiettiva. La sua accezione psicologica presta del resto il fianco a molteplici obiezioni; in primo luogo, richiedendo che questo si configuri allorquando vi sia la prospettazione, ad opera dell’agente, della commissione del reato a beneficio della societas. Sulla idoneità del paradigma del risparmio di spesa – quale interpretazione oggettivata del criterio di ascrizione del vantaggio – occorre poi una preliminare precisazione: il mancato esborso per l’ente, con il quale si identificherebbe il vantaggio conseguito, è ulteriore e diverso dal risparmio conseguito in ragione della mancata adozione dei modelli di prevenzione del rischio-reato. 

Quanto all’irrilevanza dell’identificazione dell’autore materiale del reato per lo svolgimento del processo penale de societate - che rappresenta la seconda ragione fondante la necessità di una interpretazione oggettiva dell’interesse - si è sostenuto che, laddove viceversa, se ne assumesse la connotazione soggettiva, le ordinarie difficoltà di accertamento si complicherebbero oltremodo. La ritenuta necessità di un interesse avulso da qualsiasi connotazione psicologica, in favore di un concetto obiettivato, ha condotto a ritenere identificabile tale requisito con la “politica d’impresa” dell’ente. La locuzione si riferisce all’ipotesi in cui l’impresa ha «operato per conseguire scopi criminosi o ha utilizzato principalmente mezzi criminosi». Non essendo possibile determinare la liceità o l’illiceità della modalità gestionale dell’ente, poiché il più delle volte la politica d’impresa non risulta esplicitata e rimane indecifrabile all’interno dei complessi organismi collettivi, il precipitato logico sarebbe dato dall’impossibilità materiale di affermare la sussumibilità della condotta del singolo alla realizzazione dello scopo sociale “deviato”. O, per converso, l’accertamento del criterio di imputazione oggettiva sarebbe dato per implicito in ragione della tipologia di impresa ora considerata, muovendo così verso la configurazione di una fattispecie di responsabilità oggettiva. In conclusione, è possibile affermare che la totale epurazione delle componenti soggettive dal canone dell’interesse non sembra essere una via percorribile.

L’inadeguatezza di siffatte letture ortopediche discende, da un lato, dalla complessità del meccanismo di imputazione ordinario, ossia una responsabilità della persona giuridica per il fatto illecito dell’apicale o del subordinato, giustificata da un difetto organizzativo nonché, dall’altro lato, dall’enucleazione legislativa di ipotesi particolari nelle quali la responsabilità dell’ente, in ragione della diversa configurazione dell’interesse propria della singola fattispecie concreta, risulta attenuata ovvero totalmente esclusa.