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Pubbl. Ven, 5 Gen 2018

Il danno da ritardo e la responsabilità della pubblica amministrazione

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Pietro Cucumile


La trattazione affronta il presupposto genetico del danno da ritardo, ovvero l´obbligo di provvedere alla conclusione del procedimento, le sue modalità e i relativi termini, oltre agli aspetti più critici e contestati della disciplina, attraverso le ultime sentenze del Consiglio di Stato e le opinioni di autorevoli amministrativisti.


Sommario: 1. Introduzione; 2. La natura giuridica della responsabilità da ritardo della P.A.; 3. L'ingiustizia del danno e il suo accertamento; 4. La prova e i criteri di quantificazione del danno; 5. Il profilo soggettivo: colpa o dolo della P.A. che ha emanato l’atto lesivo; 6. Conclusioni.

1. Introduzione

Il seguente approfondimento si propone di affrontare l'innovativa e discussa figura del “danno da ritardo”, affiorato nel panorama giurisprudenziale e dottrinale degli ultimi anni, a seguito di importanti modifiche legislative fino all'introduzione, tramite la legge n° 69/09 dell'art. 2 bis nella legge n° 241/90, definendone così la risarcibilità. Una trattazione completa dovrebbe affrontare il presupposto genetico del danno da ritardo, ovvero l'obbligo di provvedere alla conclusione del procedimento, le sue modalità e i relativi termini, oltre agli aspetti più critici e contestati della disciplina, attraverso le ultime sentenze del Consiglio di Stato e le opinioni di autorevoli amministrativisti, per concludere con i profili più evolutivi della questione e dei suoi rimedi, rappresentati, uno su tutti, dalla figura del funzionario anti-ritardo.

La tematica del danno da ritardo è collegata al tema, di stringente attualità, della certezza dei tempi di conclusione dei procedimenti amministrativi[1].

Il principio della certezza temporale della conclusione del procedimento era stato originariamente previsto dall'art. 2 legge n° 241/1990 ed è stato poi oggetto di una continua attenzione da parte del legislatore. Nella sua originaria formulazione, l'art. 2 stabiliva che le amministrazioni pubbliche dovessero determinare il termine di conclusione per i vari tipi di procedimento e che, in mancanza di tale determinazione, il termine ordinario sarebbe stato di 30 giorni.

Inoltre, due  ulteriori  innovazioni a livello amministrativo e penale pongono l'attenzione sulla necessità della certezza del tempo nell'agire amministrativo: la prima è rappresentata dalla legge n° 142/1990, di riforma delle autonomie locali, che ha introdotto, seppur in forma ancora embrionale, alcuni meccanismi di accelerazione dei procedimenti svolti davanti alle amministrazioni territoriali; la seconda riguardante la riscrittura dell'art. 328 c.p. (avvenuta ad opera dell'art. 16 della L. 26 aprile 1990, n. 86) con l'inserimento al secondo comma di tale disposizione, della previsione dell'obbligo per il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio di rispondere entro trenta giorni, a pena di sanzioni penali, alla richiesta del privato di compiere un proprio atto d'ufficio o di esporre le ragioni del ritardo.

Sempre negli anni novanta, poi, si segnalano ulteriori interventi normativi che confermano l'interesse del legislatore per il rispetto dei tempi procedimentali, fra cui la riforma del lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione (la c.d. privatizzazione del pubblico impiego) che prevede, nell'ambito della generale valorizzazione del ruolo della dirigenza, strumenti di accelerazione del procedimento, mediante poteri sostitutivi dei dirigenti sovraordinati nei confronti dei dirigenti di livello inferiore e dei responsabili del procedimento.

Un ulteriore significativo intervento, in quegli anni, è rappresentato dalla previsione, di cui all'art. 17, lett. f), della legge n° 59/1997 (c.d. Legge Bassanini), di un indennizzo automatico e forfettario a favore dei soggetti richiedenti il provvedimento, nei casi di mancato rispetto del termine del procedimento e di mancata o ritardata adozione del provvedimento[2].

È della fine del secolo scorso, per altro, l'intervento della Corte di Cassazione, a Sezioni unite, che, con la celeberrima sentenza n. 500/1999, ha ammesso la risarcibilità degli interessi legittimi demandata, con la riforma di cui alla L. n° 205/2000, alla giurisdizione del giudice amministrativo.

Dopo alcuni anni di silenzio, la tutela dell'interesse del privato alla certezza dei tempi di conclusione del procedimento è stata innovata dall'intervento del legislatore sui tempi procedimentali tramite l'art. 6 bis L. n° 80/2005, di conversione del D.L. n° 35/2005.

Il Legislatore del 2005 ha introdotto così un meccanismo di individuazione dei termini procedimentali che, per le amministrazioni statali, fa perno su regolamenti, adottati ai sensi dell'art. 17 comma 1 della L. n° 400/1988 di concerto fra il ministro competente ed il ministro della funzione pubblica e, cosa più importante, ha portato il termine di conclusione residuale, (nel caso non si provveda diversamente con i regolamenti anzidetti), a novanta giorni. Inoltre, dopo alcuni anni, con l'avvento del governo Berlusconi e l'insediamento del Ministro Brunetta nel ruolo di Ministro della pubblica amministrazione e l'innovazione, si assiste a nuove riforme nel campo della pubblica amministrazione che vanno naturalmente a toccare anche il tema della certezza dei tempi procedimentali.

Nel 2009, con l'emanazione della “legge n° 69”, si va nuovamente ad incidere sull'art. 2 della L. n° 241/1990, operando una profonda riformulazione dello stesso mediante l'inserimento nel corpo della legge del nuovo art. 2 bis recante “Conseguenze per il ritardo dell'amministrazione nella conclusione del procedimento”. L'intervento in particolare, ha riportato a trenta giorni il termine ordinario di conclusione dei procedimenti per le pubbliche amministrazioni, con la possibilità per le stesse, di fissare tempi più lunghi per i procedimenti di loro spettanza. Tuttavia, tale possibilità, viene volutamente scoraggiata, prevedendo che non siano più le singole amministrazioni ma il Consiglio dei Ministri, mediante regolamenti, a stabilire tali più lunghi termini e che, in ogni caso, questi non possano superare i novanta giorni. È evidente l'intento di arrivare ad una riduzione dei termini dei procedimenti che, se rispettati, porterebbero ad una maggiore velocizzazione delle pp.AA.

Con l'introduzione dell'art. 2 bis, inoltre, si sono obbligate le pubbliche amministrazioni a risarcire il danno ingiusto cagionato in conseguenza dell'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento, provvedendo a codificare ciò che la giurisprudenza aveva affermato, pur con diverse visioni, ormai da oltre un decennio. La previsione di risarcibilità del danno da ritardo nella conclusione del procedimento, trova adesso una esplicita previsione anche fra le azioni di condanna di cui all'art. 30 del Codice del Processo amministrativo.

Il tema della risarcibilità del c.d. “danno da mero ritardo”, ovvero il risarcimento del danno connesso al ritardo nel provvedere da parte della pubblica amministrazione, si muove, invece, sulla considerazione della spettanza o meno in capo al ricorrente del bene della vita sottostante al provvedimento richiesto. L'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n° 7/2005 si era, invero, espressa sfavorevolmente alla possibilità di risarcire tale danno e la giurisprudenza amministrativa successiva si è posta, in generale, in linea con tale orientamento. Solo con le riforme operate dagli interventi legislativi della L. n° 69/2009 e del nuovo C.P.A., sia la dottrina che una parte della giurisprudenza hanno propeso per la via del superamento dell'irrisarcibilità del danno da mero ritardo stabilito dalla Adunanza plenaria del 2005, attraverso una interpretazione estensiva dell'art. 2 bis e la considerazione che ormai il “tempo” dell'azione amministrativa, è diventato esso stesso bene della vita e come tale meritevole di tutela, anche risarcitoria.

In un contesto[3], nel quale il nostro ordinamento è sottoposto ad un processo di revisione e innovazione continua, in cui si innesta il nuovo Codice del processo amministrativo, il tema della responsabilità amministrativa per la lesione di interessi legittimi, costituisce l'espressione più significativa del mutamento dei rapporti tra P.A. e soggetti amministrativi che si realizza stravolgendo dinamiche e istituti consolidati[4].

Chi voglia approfondire a tutto tondo il tema del danno da ritardo non può non occuparsi, quindi, di quelli che sono gli aspetti portanti del diritto amministrativo: in particolare, il tema dell'inquadramento dell'interesse legittimo a livello sostanziale e processuale e dei diversi orientamenti che hanno portato, con la celebre Sentenza delle Sez. unite n. 500 del 1999, a riconoscerne la risarcibilità; occorre delineare, inoltre, i principi che caratterizzano l'agire amministrativo: il principio di legalità, imparzialità, efficacia, efficienza, l'obbligo di pubblicità e trasparenza in relazione anche agli ulteriori principi affermati a livello comunitario. Giocoforza, poi, occorre svolgere un'attenta analisi dell'art. 2 della legge n° 241/90 dell'obbligo di conclusione del procedimento, comprensivo dei relativi termini e delle rispettive modalità di conclusione (Conferenza servizi, Scia, silenzio e accordi tra amministrazione e privati).

A tal proposito, si pensi alla disciplina su silenzio della pubblica amministrazione[5], il cui rito disciplinato dall'art. 31 c.p.a. si caratterizza per essere un giudizio particolarmente celere quale rimedio ancor poco efficace se il giudice non ha la possibilità di scrutinare la fondatezza della pretesa sostanziale fatta valere in giudizio, condannando la P.A. all'emanazione del provvedimento rifiutato o omesso, previa fissazione della regola del caso concreto. Lo stesso art. 117 comma 6 c.p.a. ha previsto l'ipotesi di proposizione congiunta delle due azioni (risarcitoria e avverso silenzio), potendo il giudice così definire con il rito camerale l'azione avverso il silenzio e trattare con il rito ordinario la domanda risarcitoria, coinvolgendo entrambe in un unico giudizio. Un discorso a parte va fatto poi per il danno da ritardo. É noto che ben prima dell'approvazione del Codice del processo amministrativo, l'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (15 settembre 2005, n. 7) aveva ribadito un orientamento consolidato, secondo il quale il risarcimento può essere accordato solo nella misura in cui il ricorrente lamenti la mancata o tardiva emanazione del provvedimento favorevole, cui si ricolleghi il bene della vita, e non per il fatto in sé dell'omissione o del ritardo dell'emanazione.

L'annosa questione se il danno da ritardo fosse risarcibile, ove sussistesse la spettanza del bene della vita, dipende pertanto dall'importanza che si attribuisce al valore tempo e al disvalore che si vuole riconnettere al silenzio e inerzia della P.A. e all'interesse ad una corretta azione amministrativa. Altra questione fondamentale, riguarda la domanda risarcitoria (i relativi termini per proporla e la supposta pregiudizialità unita alla domanda avverso il silenzio). La natura della responsabilità del danno da ritardo, in particolare, accostata per certi aspetti alla responsabilità extracontrattuale e all'assoggettamento al relativo regime probatorio (art. 2697 cc.), con l'obbligo di provare gli elementi costitutivi del danno, richiede, per certi aspetti, uno sforzo probatorio eccessivo per il danneggiato.

La differenza ontologica e concettuale degli interessi tutelati, sembrerebbe emergere dalle recenti sentenze amministrative, nella parte in cui affermano come l'interessato possa agire in giudizio sia per ottenere il risarcimento del danno derivante dal mancato conseguimento del bene della vita negato, sia del danno da ritardo, con ripercussioni anche sul piano probatorio. Così, con specifico riferimento al danno non patrimoniale da ritardo (danno esistenziale), il Consiglio di Stato, Sez. V, 28 Febbraio 2011 n. 1271, è giunto ad affermare la sussistenza del predetto danno per la considerazione che il fatto certo della privazione dell'attività lavorativa a danno di soggetto versante in condizioni di minoranza fisica, consente di risalire al fatto del peggioramento della qualità dell'esistenza.

Non può non accennarsi, a tal fine, alla legge Regionale Toscana n. 40/2009, che prevede, in modo assolutamente innovativo, la corresponsione di un indennizzo al privato per il ritardo nella conclusione dei procedimenti amministrativi della Regione e degli enti dipendenti, totalmente svincolato dalla spettanza o meno di quanto richiesto. Riprendendo di fatto, un'idea che già era stata del Disegno di legge Nicolais[6], (così conosciuto dal nome del ministro della funzione pubblica dell'ultimo Governo Prodi), la Regione con tale legge ha riconosciuto il diritto dei cittadini ad un'azione tempestiva da parte della pubblica amministrazione: da ciò consegue il diritto all'indennizzo ogniqualvolta ciò non avvenga. Pertanto, la considerazione sulla spettanza o meno dell'atto richiesto, viene a perdere di qualunque rilevanza, perché ciò che la legge sanziona è il mancato rispetto dei termini di conclusione dei procedimenti, in un'ottica per cui anche il bene “tempo” è rilevante in sé.

Infine, di rilievo sono anche gli aspetti riguardanti la responsabilità del pubblico dipendente in relazione al relativo danno da ritardo: la responsabilità dirigenziale per il mancato rispetto dei termini, unita alla relativa responsabilità civile ed amministrativa- contabile del funzionario.

Risvolti, importanti, sono, poi, connessi ai rimedi previsti a livello comunitario contro “ il ritardo dei pagamenti” Direttiva C.E. 35/2000 e Direttiva 7/2011 sui termini di pagamento della P.A..

Si consideri, poi, la nuova figura del funzionario anti-ritardo, introdotto dalla legge n° 35/2012 e legge n° 134/2012 che hanno aggiunto nuovi commi all'art. 2 della legge n° 241/1990, in particolare, inserendo i commi ottavo e successivi che prevedono l'introduzione di un meccanicismo sostitutivo avocatorio del procedimento in danno del dirigente responsabile che colpevolmente non concluda entro i termini il relativo procedimento[7]. Si ricorda, nelle prospettive evolutive, la legge n° 190/2012, legge anti-corruzione, che ha ampliato gli obblighi di trasparenza e informazione di conclusione del procedimento e infine il “Decreto del fare” D.L. 69/2013 convertito in legge n° 98/13, che ha finalmente tipizzato a livello normativo la risarcibilità del danno da mero ritardo. Tuttavia, tale previsione, rimane per ora limitata dal punto di vista soggettivo ai soli imprenditori, e subordinata a procedure di attivazione del responsabile sostituto, tutto per l'ottenimento di un indennizzo di soglia massima non superiore ai 2 mila euro. In via di conclusione, poi, si riporteranno i recenti approdi in materia giurisprudenziale ed, in particolare, la recente pronuncia del Consiglio di Stato, di marzo 2016, che sancisce l’inammissibilità del danno da mero ritardo.

2. La natura giuridica della responsabilità da ritardo della P.A.

Come si è visto, la storica sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni unite 22 luglio 1999, n. 500, aveva ritenuto che la responsabilità della p.A. da provvedimento illegittimo (detta anche per lesione di interessi legittimi) costituisse una ipotesi di responsabilità aquiliana ex art. 2043 del codice civile, ma negli anni successivi questo assunto è stato rimesso in discussione.

Vi è chi ha parlato di responsabilità contrattuale da contatto sociale qualificato dalla violazione degli obblighi di protezione che caratterizzano il rapporto P.A. - privato nel corso del procedimento (avviso di inizio, contraddittorio, dovere di motivazione, etc.). Questa tesi è ricca di conseguenze pratiche, perché inverte l’onere della prova della colpa facendolo gravare sulla P.A.: art. 1218 c.c. e modifica il regime di calcolo degli interessi e della rivalutazione.

Così come un certo successo riscuote tuttora la tesi, anch’essa minoritaria, che postula un regime speciale di responsabilità della P.A. per danno da provvedimento illegittimo. Non si tratta, in questo caso, di un filone unico ma di pronunciati giurisprudenziali diversi, ove si evidenzia la particolare natura della fattispecie “responsabilità della P.A. per danno da provvedimento illegittimo”, connotata da uno speciale legame con il potere autoritativo e dalla particolare veste specializzata del soggetto danneggiante, per indurne deroghe importanti al regime della responsabilità aquiliana, in materia ad esempio di elemento soggettivo.

Tuttavia, un elemento oggi quasi decisivo in favore della tesi tradizionale della responsabilità aquiliana si rinviene negli artt. 2 bis della legge n. 241/1990 (come introdotto dall’art. 7 della legge n. 69/2009) e 30, comma 2, C.P.A., i quali - pur non definendo espressamente la natura della responsabilità della p.A. per danno da provvedimento illegittimo - utilizzano un’espressione (“risarcimento del danno ingiusto”) che richiama direttamente quello utilizzato dall’art. 2043 del codice civile di prova del danno.

Pertanto, la tesi oggi prevalente è senz’altro quella della natura aquiliana della responsabilità della p.A. per danno da provvedimento illegittimo, utilizzando lo schema espositivo che meglio si addice a tale impostazione, distinguendo i seguenti presupposti del diritto al risarcimento:

  • esistenza e quantificazione del danno;
  • ingiustizia del danno stesso;
  • nesso causale tra provvedimento illegittimo e danno;
  • l’elemento soggettivo (dolo o colpa) ascrivibile alla P.A. danneggiante.

3. L'ingiustizia del danno e il suo accertamento

Cominciando dall’accertamento del danno e della sua ingiustizia, il problema concettualmente più rilevante riguarda i rapporti con l’illegittimità del provvedimento, essendo necessario precisare se da quest’ultima consegua automaticamente la presenza di un danno ingiusto o se, invece, sia necessario operare verifiche ulteriori.

Ormai superata è la vecchia tesi secondo cui l’ingiustizia del danno si dovrebbe presumere nel caso di interesse oppositivo: infatti, anche un provvedimento lesivo di interessi oppositivi può essere affetto da vizi meramente formali, o che comunque non ne precludono una riedizione legittima, come nel caso di vizi formali emendabili o al caso in cui la P.A. possa adottare meglio il provvedimento motivando meglio le proprie decisioni.

In realtà la distinzione corretta è quella tra i casi di potere vincolato e quelli di potere discrezionale, in quanto:

  • se l’interesse legittimo è leso da un provvedimento vincolato, il G.A. non avrà difficoltà a valutare la spettanza concreta del bene della vita, dovendo a tal fine applicare precisi parametri normativi;
  • se, invece, l’interesse legittimo è leso da un provvedimento discrezionale, la questione è complicata dal fatto che il Giudice, per accertare la spettanza concreta del bene della vita, dovrebbe ingerirsi in valutazioni fortemente opinabili, disancorate da parametri legislativi e istituzionalmente rimesse all’Amministrazione. Con l’ulteriore complicazione delle ipotesi in cui la P.A. eserciti una discrezionalità di tipo tecnico, che si discute se debbano essere inquadrate nell’ambito dell’attività discrezionale (accomunando discrezionalità tecnica e discrezionalità amministrativa, perché entrambe connotate da valutazioni non matematicamente riscontrabili) o se, invece, vadano ricondotte all’attività vincolata (valorizzando il fatto che la discrezionalità tecnica non implica ponderazione dell’interesse pubblico, ma solo applicazione di regole tecniche non matematiche, nel quadro di scelte di opportunità già interamente esercitate dal legislatore).

La complessità di tale questione ha comportato il formarsi di almeno tre orientamenti dottrinali e giurisprudenziali divergenti in ordine alla soluzione da adottare laddove il provvedimento lesivo sia espressione di un potere discrezionale o tecnico - discrezionale della p.A.

Una prima tesi ammette che il giudice operi una “valutazione virtuale” sulla fondatezza della pretesa ai soli fini del risarcimento per equivalente, instaurando un processo nel quale la p.A. avrà l’onere di dedurre in giudizio le ragioni ostative al soddisfacimento della pretesa ulteriori rispetto a quelle già addotte nell’atto impugnato e, alla fine, il Giudice dovrà valutare se la stessa pretesa avrebbe potuto trovare soddisfazione in modo compatibile con l’interesse pubblico.

Una seconda tesi nega l’ammissibilità di un simile meccanismo sostitutivo e sostiene che la pretesa del privato debba essere riguardata in termini di chance, la quale potrà ricevere tutela risarcitoria a patto che il privato dimostri di avere una possibilità superiore al 50% di ottenere il bene della vita (ed in questo caso l’entità del risarcimento dovrà essere commisurata alla soddisfazione piena del bene) ovvero dimostri comunque una chance rilevante (ed allora l’entità del risarcimento sarà commisurata alla percentuale di possibilità dimostrata dal privato: vedi infra)

Il danno da perdita di chance non viene considerato lucro cessante ma danno emergente, considerando la chance quale posizione di aspettativa che dà al suo titolare la possibilità di “giocarsi le carte regolarmente”, possibilità ovviamente frustrata dall’agire illegittimo della P.A.

Una terza tesi “conservatrice” rifiuta sia la tecnica della sostituzione che quella basata sulla chance, affermando che il risarcimento del danno da provvedimento discrezionale potrà essere riconosciuto solo ove (e dopo che) l’Amministrazione abbia concesso il provvedimento richiesto (o ritirato quello lesivo), per cui il danno concretamente risarcibile sarà solo quello da ritardo. Tale tesi risulta, però, fortemente riduttiva dal momento che la risarcibilità del danno è limitata all’ipotesi menzionata.

La tecnica basata sulla chance, dopo aver raggiunto una notevole diffusione soprattutto in materia di gare d’appalto, aveva subito una battuta d’arresto a seguito della modifica dell’art. 245 del Codice degli appalti operata dall’art. 12 del d.lgvo n. 53/2010, in base alla quale il risarcimento per equivalente nelle gare d’appalto poteva essere riconosciuto solo al concorrente in grado di provare il proprio “diritto” all’aggiudicazione. Poi, il Codice del processo amministrativo ha abrogato l’art. 245 e l’ha sostituito con l’art. 124 dello stesso C.P.A., che non vieta più il risarcimento della chance, per cui questa tecnica di valutazione è tornata nuovamente all’attenzione dei giudici amministrativi.

4. La prova e i criteri di quantificazione del danno

Uno dei problemi più spinosi in materia di responsabilità della P.A. è costituito dai criteri di prova e di quantificazione del danno, come dimostra la previsione a suo tempo introdotta dall’art. 35, comma 3, del d.lgvo n. 80/1998 - ed ora recepita all’art. 34, comma 4, C.P.A. (che subordina però il meccanismo al consenso di entrambe le parti del giudizio) - del potere del giudice di emettere una condanna generica in cui si riconosce l’esistenza di un danno da risarcire senza però quantificarlo, indicando soltanto dei criteri generali in base ai quali le parti potranno giungere ad una determinazione consensuale del quantum del risarcimento. Quanto alla prova del danno, il relativo onere grava sul danneggiato, che deve fornire al giudice anche gli elementi necessari alla sua quantificazione; in caso contrario la domanda risarcitoria dovrà essere respinta.

Tuttavia, la portata di questo assunto viene in concreto attenuata dalla giurisprudenza, la quale tende a ritenere assolto l’onere probatorio laddove il privato dimostri l’esistenza di un danno e indichi in modo oggettivo dei parametri per la sua quantificazione, restando al giudice il potere di vagliarne l’attendibilità anche a mezzo di C.T.U. e di integrare con la valutazione equitativa gli aspetti che oggettivamente non si prestano ad una dimostrazione puntuale.

Quanto ai criteri di quantificazione del danno, lo stesso assume dimensione differente a seconda che abbia ad oggetto l’interesse negativo o quello positivo ed a seconda che l’interesse positivo sia concepito in termini di spettanza finale del bene della vita o in termini di chance.

Ciò premesso, trova certamente applicazione al giudizio amministrativo l’art. 1223 del codice civile, in base al quale deve essere risarcito il danno emergente ed il lucro cessante: stando all’esempio del danno da mancata aggiudicazione di un appalto già interamente eseguito (e quindi non più attribuibile al danneggiato), il risarcimento dovrà tenere conto sia delle spese sostenute per partecipare alla gara (danno emergente) che del mancato utile che sarebbe derivato dal contratto di appalto. Si tenga conto, però, che se il danno da mancata aggiudicazione viene concepito in termini di chance, il sopra descritto 10% del valore dell’appalto (utile presunto) sarà attribuito solo ove l’interessato dimostri una chance di aggiudicazione superiore al 50%, mentre ove la percentuale sia inferiore si effettuerà una riduzione di quella somma in base al numero delle imprese utilmente collocate in graduatoria.

Inoltre, si terrà conto del cd. “danno curricolare”, collegato all’impossibilità per l’impresa di ascrivere al proprio curriculum l’aggiudicazione di quell’appalto, di solito quantificato in una percentuale tra l’1% e il 5% del prezzo a base d’asta. Infine, possono concorrere anche le occasioni perdute ulteriori rispetto all’appalto impugnato (classico lucro cessante), sul presupposto che l’impegno profuso per la partecipazione alla gara abbia impedito all’impresa di impegnare le proprie energie in altre attività produttive.

5. Il profilo soggettivo: colpa o dolo della P.A. che ha emanato l’atto lesivo.

A partire dalla sentenza n. 500/1999 delle Sezioni unite, che ha riconosciuto la risarcibilità degli interessi legittimi, è sorta l’esigenza di circoscrivere il relativo rimedio sotto il profilo soggettivo della necessità della colpa o dolo della P.A. che ha emanato l’atto lesivo. Nasceva così la peculiare nozione di “colpa d’apparato”, che postula un giudizio di rimproverabilità dell’amministrazione sulla scorta di una accertata “violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione alle quali l'esercizio della funzione amministrativa deve ispirarsi”. Inoltre, poiché la Corte di Cassazione è partita dalla tesi della natura aquiliana della responsabilità, l’onere della prova della colpa della P.A. è stato attribuito al privato danneggiato. Un grosso limite di questa ricostruzione è, però, costituito dalla notevole vaghezza della nozione di “colpa dell’apparato”, che, infatti, ha dato luogo al formarsi di tre diverse interpretazioni in seno al stesso Consiglio di Stato, cui ormai compete la giurisdizione sul risarcimento del danno.

Un primo orientamento, minoritario, fa capo alla tesi della natura speciale della responsabilità della p.A. per danno da provvedimento illegittimo e la considera di una responsabilità oggettiva, per cui - sulla falsariga della nozione elaborata dalla Corte di Giustizia in materia di danno arrecato da attività delle istituzioni comunitarie ai sensi dell’art. 340 del Trattato sul funzione della Comunità - ritiene che il privato in realtà debba dimostrare (non già la colpa dell’amministrazione bensì) il carattere grave e manifesto della violazione normativa perpetrata della p.A., tenendo conto soprattutto del carattere più o meno ampiamente discrezionale della valutazione rimessa alle sue cure e del carattere più o meno univoco del quadro normativo di riferimento. L’orientamento in questione è stato contestato sotto due aspetti:

  • perché la scelta di costruire un regime speciale di responsabilità della P.A. appare priva di base normativa;
  • perché lo spostamento del fulcro della fattispecie dalla colpa alla gravità della violazione di legge, invece che favorire il danneggiato, può finire addirittura per penalizzarlo, costringendolo ad una prova inerente la gravità della violazione normativa che si rivela quasi impossibile tutte le volte in cui la P.A. abbia esercitato un potere discrezionale o tecnico - discrezionale.

Un secondo orientamento, che può considerarsi maggioritario, applica il paradigma normativo dell’art. 2043 e ritiene che la responsabilità dell’Amministrazione presupponga la colpa, quale elemento ulteriore rispetto alla illegittimità del provvedimento, con l’unica precisazione che il danneggiato può addurre l’illegittimità dell’atto quale presunzione semplice di colpa ex art. 2727 del codice civile, spettando, a quel punto, all’Amministrazione dimostrare l’errore scusabile, che si configura nei casi di significativi contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione di una norma rilevante ai fini della decisione ovvero di formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore ovvero ancora di particolare complessità del fatto ovvero ancora di illegittimità costituzionale.

Un terzo orientamento, che (come il primo) attribuisce alla responsabilità della p.A. per danno da provvedimento illegittimo, natura speciale, riconduce la colpa della P.A. al paradigma normativo di cui all’art. 2236 del codice civile.

La tesi, sostenuta soprattutto dal Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana (cfr. n. 224/2007, n. 361/2007, n. 699/2007 e n. 1090/2009) assume che la colpa necessaria ai fini della condanna della P.A. debba essere graduata a seconda del livello di difficoltà della questione giuridica affidata alle sue cure, anche se i risultati concreti di questa linea interpretativa finiscono per essere comunque rigorosi per l’amministrazione, essendo ritenuta sufficiente la colpa lieve in tutti i casi in cui il danno sia dovuto a errore di interpretazione di una norma successivamente dichiarata applicata.

6. Conclusioni

Volendo tirare le fila del discorso, può affermarsi che, a prescindere dall’impostazione teorica prescelta, tutta la giurisprudenza è andata incontro ad un’evoluzione che ha reso più rigoroso il regime di responsabilità della p.A. sul piano soggettivo, attribuendo all’illegittimità del provvedimento quanto meno la funzione di elemento presuntivo della colpa e così postulando in capo alla p.A. un onere di “prova contraria” che riguarda essenzialmente la grave incertezza del quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento. In tale direzione spinge ora anche una pronuncia della Corte di Giustizia CE (cfr. Sez. III, 30 settembre 2010, in causa C-314/09), seppur riguardante lo specifico settore degli appalti, ove si afferma che la direttiva del Consiglio 21 dicembre 1989, 89/665/CEE (in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori) osta ad interventi del legislatore nazionale che subordinino il diritto ad ottenere il risarcimento del danno derivante dalla violazione della disciplina sugli appalti pubblici ad un giudizio di colpevolezza ascrivibile all’amministrazione aggiudicatrice, persino nell’ipotesi in cui la disciplina nazionale contempli una presunzione di colpevolezza superabile mediante dimostrazione di un errore soggettivo scusabile.

Intanto, come si è visto, il Consiglio di Stato, con una recentissima pronuncia, ha cominciato a chiudere le porte al danno da mero ritardo.

Note e riferimenti bibliografici
[1] G. CONTI, Il danno da ritardo nell'agire amministrativo, Edizioni Exeo, 2012.
[2] GIOVAGNOLI, R. FRATINI M., Le nuove regole dell'azione amministrativa al vaglio della giurisprudenza ,Vol. I, Procedimento e accesso, Milano, 2007.
[3] D'ARIENZO, La tutela del tempo nel procedimento e nel processo, Ed. Sc. Giur., 2012.
[4] G. MORBIDELLI, Relazione di sintesi, in Atti del XLVIII Convegno di studi di Scienza dell'Amministrazione, Varenna 2008 Milano 2009; C. SALTELLI, La responsabilità dell'amministrazione per omissione o ritardo nell'esercizio del potere, in Atti del LIV, Convegno di studi di scienza dell'amministrazione, Varenna2008 , Milano 2009; I. PAGNI, Giurisdizione del giudice amministrativo e risarcimento del danno: il nuovo volto dei rapporti tra tutela risarcitoria e tutela demolitoria.
[5] D'ARIENZO, La tutela del tempo nel procedimento e nel processo, Ed. Sc. Giur., 2012.
[6] G. CONTI, Il danno da ritardo nell'agire amministrativo, Edizioni Exeo, 2012.
[7] S. USAI, Il responsabile del procedimento amministrativo, Maggioli Editore, 2013.