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Pubbl. Mar, 14 Nov 2017
Sottoposto a PEER REVIEW

La Corte EDU e il divieto di bis in idem: lo stato dell´arte fra innovazioni e revirements.

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Michele Motta


Nota a sentenza Corte Edu, 15 Novembre 2016, caso ´A. e B. c. Norvegia´ (e successive conformi), ultimi tasselli di un mosaico confusionario. Un excursus concernente il tema caldo del ´ne bis in idem´ alla luce dell´altalena giurisprudenziale fra innovazioni e revirements.


Sommario: 1. Premesse introduttive. – 2. I referenti normativi. – 3. Requisiti costitutivi e profili controversi. – 3.1. La ‘natura sostanzialmente penale della seconda sanzione’ (sentenza Engel, 1976). – 3.2. ‘L’idem factum’ (sentenza Zolotukhin, 2009). – 3.3. La ‘connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta’. Profilo controverso. – 4. L’ultimo orientamento della Corte EDU: sentenza A. e B. c. Norvegia (2016). Successive conformi: sentenza Johannesson c. Islanda (2017). – 4.1. Paulo Pinto de Albunquerque: la voce fuori dal coro. – 5. Che fine ha fatto la sentenza Grande Stevens c. Italia (2014)?

 

1. Premesse introduttive.

Le questioni concernenti l’effettività della tutela del ‘ne bis in idem’ rappresentano uno degli evergreen dello scenario normativo sovranazionale dell’ultimo trentennio.

Accanto alle elaborazioni delle Corti di legittimità dei singoli Stati membri aderenti si (im)pongono, a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, le pronunce dei giudici della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo (da ora: Corte EDU) e, più recentemente, anche i primi contributi della Corte di Giustizia dell’UE (da ora: Corte UE). I loro mirini di precisione  puntano verso i sistemi nazionali di ‘doppio binario’ sanzionatorio, i quali, sebbene prerogativa della maggior parte degli Stati membri aderenti, rischiano di porsi in contrasto rispetto al principio convenzionale, traducendosi in intollerabili ed ingiustificate ripetizioni punitive. Le diverse pronunce elaborate in questa forbice temporale, pertanto, rappresentano diversi tasselli di un mosaico che, ad essere sinceri, non appare sempre ordinato, quanto piuttosto caratterizzato da improvvisi cambi di rotta e successivi revirement.

2. I referenti normativi.

Il primo step necessario per il corretto inquadramento dei termini della questione è l’intercettazione dei referenti normativi che conferiscono dignità giuridica al principio de quo.

A tal proposito, per quanto concerne la Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali (da ora: CEDU), il principio trova tutela nel Protocollo n° 7, introdotto a partire dal 1984, il quale, all’art. 4, dispone che “nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitva conformemente alla legge e alla procedura penale di tale Stato”.

Il sistema dell’Unione Europea deve attendere, invece, la formale introduzione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (da ora: ‘Carta di Nizza’ o ‘CFUE’) per assistere ad un riconoscimento espresso del principio del ‘ne bis’. La Carta di Nizza del 2000, emulando il contenuto del corrispondente referente normativo CEDU, dispone all’art. 50 che “nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato nell’Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge”. Attraverso il meccanismo di inglobazione, previsto e disciplinato dall’art. 6 co. 1 TUE ([1]), la Carta di Nizza assume legittimamente rango di ‘fonte’ del diritto comunitario, e i principi e le libertà in essa sanciti assurgono, contestualmente, a veri e propri principi dell’Unione.

Attenzione merita, altresì, il co. 3 dell’art. 6 TUE, a mente del quale “I diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali [...] fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”. Tale disposizione rappresenta il trait-d’union per affermare quanto segue: il principio del ‘ne bis in idem’, originariamente riconosciuto all’interno della CEDU e tutelato dalla Corte EDU, riceve altresì un ‘riconoscimento a doppia mandata’ dal Trattato UE: esso è, in primo luogo, un principio autonomamente affermato della Carta di Nizza (che, ex art. 6 co 1 TUE, ha ‘valore di trattato’ all’interno dell’Unione); in secondo luogo, esso é un principio contenuto già all’interno della Convenzione EDU (che, ex art. 6 co 3 TUE, detta ‘principi generali’ vincolanti anche per l’Unione).

3. Requisiti costitutivi e profili controversi.

Se è pacifico, per un verso, che il principio in esame abbia cittadinanza giuridica non solo negli ordinamenti interni – si pensi alla previsione dell’art. 649 cod. proc. pen. – ma anche in ambito sovranazionale (stante la molteplicità dei referenti normativi intercettati), è tutt’altro che univoco, per contro, il punctum dolens concernente le condizioni in presenza delle quali il principio possa ritenersi concretamente ed effettivamente violato. Ciò in quanto le norme si limitano ad affermare il divieto di procedere a nuova sanzione penale nei confronti di chi sia già stato condannato o assolto con sentenza penale definitiva, ma non chiariscono in presenza di quali condizioni il principio possa ritenersi violato (con conseguente illegittimità della seconda sanzione ed inoperatività del sistema del doppio binario) e in assenza di quali, invece, sia da escludere alcun tipo di violazione (con conseguente possibilità di procedere ad una doppia irrogazione).

E’ fisiologico che il compito di individuare i requisiti costitutivi della violazione sia stata prima (e maggiormente) appannaggio della Corte EDU (rispetto alla Corte UE), in ragione della longevità della Convenzione rispetto alla Carta Fondamentale.

3.1. La natura sostanzialmente penale della seconda sanzione (caso Engel, 1976).

Venendo dunque all’elaborazione giurisprudenziale, essa afferma pacificamente che, perché si possa legittimamente dubitare di una presunta violazione del principio in esame, è necessario (sebbene non sufficiente) un giudizio di positività concernente l’indagine circa la natura sostanzialmente penale della seconda sanzione irrogata.

I giudici di Strasburgo erano intervenuti, già otto anni prima dell’introduzione dell’art. 4 del Protocollo n° 7, con la celeberrima sentenza Engel, ancoràndo in quell’occasione la pronuncia all’art. 6, in materia di equo processo. Come confermato dalla giurisprudenza successiva (fino ad arrivare alla sentenza in esame in questo contributo), in quell’occasione la Corte ha affermato principi che, per coerenza sistematica, non possono non valere anche con riguardo al principio del ‘ne bis in idem’. Pertanto, nelle ipotesi di irrogazione di un doppia sanzione (ovvero di una sanzione amministrativa o tributaria a fianco di una violazione penale), vi è necessità di indagare, preliminarmente, sulla reale natura della seconda sanzione, al fine di comprendere se questa, formalmente riconducibile al novero delle sanzioni amministrative, possa invece qualificarsi come sostanzialmente penale.

Premesso che l’indagine sulla natura sostanzialmente penale della seconda sanzione è dunque il primo (necessario ma non sufficiente) requisito perchè possa aversi violazione del ne bis in idem, il problema finisce per spostarsi sull’individuazione dei criteri per rilevare la reale natura di una sanzione; ed è proprio attraverso l’elaborazione successiva, che la giurisprudenza individua una serie di indici rivelatori che permettano all’interprete di condurre l’indagine sulla reale natura della sanzione. In via del tutto esemplificativa, si segnala che alcune volte è stato posto l’accento sulla classificazione giuridica fatta all’interno del singolo ordinamento nazionale della sanzione, altre sulla natura dell’infrazione, ed altre ancora sulla severità della sanzione applicata (con particolare riguardo, in quest’ultima ipotesi, al massimo edittale).

3.2. L’idem factum (caso Zolotukhin, 2009)

Il secondo requisito cui deve guardarsi, al fine di poter valutare l’esistenza o meno di una violazione al principio in esame, è che la sanzione penale e la sanzione formalmente amministrativa (tributaria) abbiano ad oggetto l’idem factum. Con riguardo a questo secondo aspetto, merita una menzione particolare la preziosa sentenza Zolotukhin del 2009, la quale ha ancorato l’identità in questione al fatto materiale – per il quale si giunga alla sanzione tributaria e alla condanna in sede penale (e dunque, nelle ipotesi di convergenza di una sanzione tributaria e di una penale, quest’identità avrà ad oggetto l’evasione del tributo in sé e per sé considerato) – e non piuttosto alla qualificazione giuridica dello stesso. A partire dalla sentenza citata può ritenersi in buona sostanza pacifica l’elaborazione giurisprudenziale sul punto.

3.3. La ‘connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta’. Profilo controverso.

Per quanto concerne il terzo ed ultimo requisito, ossia quello relativo alla ‘connessione sostanziale e temporale’, deve premettersi che la permanente incertezza applicativa è conseguenza del sinusoidale atteggiamento mostrato dalla Corte in occasione delle sue elaborazioni. In particolare, in merito allo specifico profilo della ‘connessione temporale’ ci si è chiesti se questa possa ritenersi sussistente solo nelle ipotesi di procedimenti paralleli (ipotesi restrittiva), o piuttosto anche nell’ipotesi di procedimenti consecutivi (e se sì, fino a che misura).

La sentenza ‘A. e B. c. Norvegia’ concentra parte della propria indagine sull’aspetto da ultimo segnalato e rappresenta l’ultimo orientamento attualmente sposato dalla Corte EDU. Che riesca nell’intento di risolvere il problema, tuttavia, è un’altra cosa.

4. L’ultimo orientamento della Corte EDU: sentenza A. e B. c. Norvegia (2016). Successive conformi: caso Johannesson c. Islanda (2017)

Nei confronti del sig. A viene esercitata l’azione penale per il reato di frode fiscale aggravata, causata dall’omessa dichiarazione al fisco di un’ingente somma di denaro.

Il mese successivo interviene la condanna definitiva, in sede tributaria, al pagamento di una sovrattassa, calcolata sull’imponibile non dichiarato, e pari al 30 per cento dell’importo. Il sig. A provvede tempestivamente a versare l’importo contestato e, scadendo i termini per proporre opposizione, si chiude definitivamente il procedimento tributario.

Quattro mesi dopo l’avvenuto pagamento (e cinque mesi dopo l’avvenuto esercizio dell’azione penale) interviene, in sede penale, la sentenza di condanna ad un anno di reclusione (affermando il tribunale di aver tenuto conto, in sede di commisurazione della pena, della sanzione amministrativa precedentemente irrogata, nonché dell’avvenuto versamento dell’importo).

Il sig. A lamenta dinanzi alle Corti nazionali, a questo punto, l’avvenuta violazione del Protocollo n° 7, art. 4; tanto il giudice di merito, quanto la corte di legittimità norvegese, pur riconoscendo sussistente il requisito dell’idem factum, e quello della natura sostanzialmente penale della sanzione amministrativa, ritengono sussista, tra le due sanzioni irrogate, una ‘connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta’ da indurre a reputarle come complementari.

Mutatis mutandis, similari sono le vicende che riguardano il sig. B,.

Nel presentare ricorso dinanzi alla Corte EDU, nessuno dei due ricorrenti mette in discussione la nozione di ‘idem factum’ cui le corti nazionali avevano fatto riferimento, confermando l’orientamento della sentenza Zolotukhin, nè tantomeno vi era incertezza sull’integrazione del requisito in esame con riferimento al caso di specie – atteso che, tanto la pena detentiva (sanzione penale), quanto la sovrattassa del 30 per cento (sanzione formalmente tributaria) avevano ad oggetto l’evasione del tributo e, di riflesso, i guadagni percetti e non dichiarati.

Per contro, l’interrogativo alla Corte EDU ha ad oggetto il terzo requisito di operatività della garanzia convenzionale del ‘ne bis’ (ossia quello relativo alla ‘connessione sostanziale e temporale’), ed in particolare se la violazione del principio si configuri nella sola ipotesi di procedimenti consecutivi o anche in quella di procedimenti paralleli per il medesimo fatto.

Dapprima la Corte passa in rassegna la casistica altalenante, denotando che in alcuni precedenti – invero minoritari ([2]) – si era preso in considerazione la ‘connessione’ come requisito ulteriore per l’accertamento della violazione, contrariamente ad un gran numero di altri casi, nei quali il requisito non era stato neanche preso in considerazione, estendendo l’ambito di operatività oggettivo della violazione fino a ricoprire ogni ipotesi di prosecuzione del giudizio penale successiva alla definitiva chiusura del processo amministrativo. ([3])

Premesso ciò, si procede ad un inevitabile bilanciamento. Il primo termine dell’alternativa è rappresentato dalla generale libertà degli Stati aderenti di elaborare plurime risposte punitive avverso specifiche condotte offensive – libertà che non può essere inibita, a monte, alla luce di parte del dato normativo che non vieta lo svolgimento di due procedimenti paralleli e l’irrogazione di due differenti sanzioni – mentre sull’altro piatto della bilancia si pone l’interesse dei singoli individui a non subire un  complesso sistematico di sanzioni che appaia eccessivamente oneroso, incomprensibile e quindi intollerabile. Da un lato, numerosi ordinamenti europei caratterizzati dal sistema del doppio binario; dall’altro, l’esigenza di effettività della tutela sovranazionale.

Atteso che il compito della Corte è quello di sottoporre a verifica i sistemi di doppio binario sanzionatorio nazionali, al fine di cogliere se questi configurino un “sistema integrato che permette di affrontare i diversi aspetti dell’illecito in maniera prevedibile e proporzionata, nel quadro di una strategia unitaria” (§ 122).

Risolutiva appare, in quest’ottica, la valorizzazione del criterio della ‘connessione sostanziale e temporale’; è proprio nelle ipotesi in cui i due procedimenti, parallelamente condotti, possano dirsi sostanzialmente e cronologicamente connessi in maniera talmente salda da apparire come due facce della stessa medaglia che le plurime irrogazioni potranno ritenersi prevedibili e proporzionali e, dunque, il sacrificio potrà dirsi ‘sopportabile’ per il cittadino (con esclusione della  violazione del canone).

Anche in questa ipotesi la Corte elabora degli indici (§133) per orientare l’indagine compiuta dall’interprete (quali per esempio la diversità degli scopi perseguiti dai diversi procedimenti, la prevedibilità della duplicità dei procedimenti e delle sanzioni, l’assenza di duplicazioni nella raccolta e nella valutazione della prova (attraverso una “adeguata interazione tra le varie autorità competenti”), nonchè, infine, l’avvenuta considerazione della precedente sanzione nella commisurazione della successiva irrogazione (ai fini di una valutazione di proporzionalità della pena).

Con riguardo poi al profilo della connessione temporale (invero, fra i più problematici) la Corte si limita ad escludere che il requisito possa dirsi integrato solo ed esclusivamente a fronte di procedimenti paralleli, implicitamente ammettendo la liceità dei procedimenti avviati anche dopo la definitiva conclusione del primo.

Si capisce come, gioco-forza nel caso di specie, la Corte ritenga di dover escludere la violazione, sussistendo una connessione sostanziale e temporale dei procedimenti. Per quanto riguarda il primo dei due profili, si valorizza, in primo luogo, la diversità dello scopo perseguito, nell’ambito del diritto interno norvegese, dalla sanzione penale (funzione punitiva) e dalla sanzione amministrativo-tributaria (funzione deterrente e compensatoria dei costi dell’amministrazione); in secondo luogo, si fa leva sulla prevedibilità, da parte dell’individuo, della doppia irrogazione; infine, si rileva l’interconnessione dei procedimenti svolti dalle autorità competenti (anche in sede di commisurazione della seconda sanzione).

Per quanto concerne le pronunce successive a quella in esame (in particolare si menzioni il caso Johannesson c. Islanda, 2017), esse si attestano alla stregua dell’orientamento di ‘A. e B’. Più, in particolare, in quest’ultimo caso si ravvisa la violazione del ‘ne bis in idem’, non essendo individuabili tutti i criteri necessari per la ‘connessione sostanziale e temporale’ richiesta alla luce del precedente. Procedendo alla verifica della sussistenza dei criteri-guida elaborati in occasione di A. e B., si rinvenne, per un verso, che le due sanzioni avessero scopi complementari, che la seconda sanzione fosse prevedibile, e che nella commisurazione della seconda sanzione fosse stata proporzionata all’irrogazione della precedente; per contro, si rilevò come l’acquisizione e la raccolta di prove fosse stata duplice (avendo condotto la polizia un’indagine indipendente pur avendo ricevuto dall’amministrazione finanziaria quanto necessario), e che mancasse la ‘connessione temporale’, essendosi i due processi svolti per lo più indipendentemente (condividendo solo una porzione temporale in parallelo).

4.1. Paulo Pinto de Albunquerque: la voce fuori dal coro.

Appare manifesta – anche alla luce della successiva Johannesson c. Islanda del 2017, applicativa dei principi elaborati dalla Corte in A. e B. c. Norvegia del 2016 – l’assoluta incapacità della Corte (che ricorre a meri indicatori) di ancoràre a criteri certi ed inequivocabili il requisito della connessione sostanziale e temporale, finendo per rimettere ogni valutazione al libero apprezzamento dell’organo giudicante (al confine con l’arbitrio). La pronuncia in esame, pertanto, mortifica la portata garantistica delle precedenti sentenze (caso Zolotukhin in materia di idem factum, caso Grande Stevens in materia di divieto di doppio binario sanzionatorio), e finisce per resuscitare ciò di cui si era “certificato la morte”, in maniera incoerente rispetto altresì alle posizioni contestualmente assunte dalla Corte di Giustizia dell’UE con riferimento al caso Fransson ([4]), nel frattempo sottoposto al suo vaglio. E’ quanto sostenuto dal giudice Paulo Pinto de Albuquerque, unica voce fuori dal coro all’interno della Grande Camera, e contenuto nella propria relazione di dissenso, allegata alla pronuncia del caso A. e B, adottata a maggioranza.

E se fosse lui, l’unico tassello messo bene all’interno di un mosaico storto?

5. Che fine ha fatto Grande Stevens c. Italia?

Solo qualche anno prima, la Grande Camera della Corte si era occupata di violazioni concernenti il mercato finanziario in occasione del caso ‘Grande Stevens c. Italia’.

L’ufficio IT della Consob aveva proceduto ad irrogare una sanzione amministrativa ai ricorrenti (Avv. Franzo Grande Stevens, i sigg. Gianluigi Gabetti e Virgilio Marrone, nonché le società Exor S.p.a. e Giovanni Agnelli & C. S.a.s.), conseguente ad una presunta violazione dell’art. 187 co 1 ter TUF ([5]), per avere diffuso notizie fuorvianti e aver manipolato il mercato. In particolare, era stata loro contestata la diffusione di un comunicato stampa in cui veniva abilmente omessa la comunicazione relativa ad una procedura di rinegoziazione in itinere fra la società Exor e la società Merrill Lynch International Ltd. La società Exor tentava, in questo modo, di ottenere la modificazione di un contratto di equity swap per conservare il controllo del 30% delle azioni FIAT, e di ovviare alla perdita di controllo che si sarebbe potuta realizzare. Era intervenuto, infatti, un altro accordo, fra la società Exor e otto banche, in occasione di un prestito concesso da queste ultime alla società; l’accordo in questione prevedeva tuttavia che, qualora la società non avesse provveduto, entro una certa data, a restituire il prestito accordatogli, sarebbe intervenuto un innalzamento del capitale sociale e una contestuale assegnazione delle quote neo-costituite alle banche stesse (a rimborso); ciò avrebbe comportato la contestuale riduzione della quota sociale controllata dalla Exor, con passaggio dal 30 al 22%. Nell’ottica dell’impossibilità di provvedere in tempo alla restituzione delle somme di denaro, e per ovviare alla perdita di capitale che si sarebbe realizzata dall’operatività della clausola appena analizzata, venne ritenuto conveniente, secondo l’avvocato Grande Stevens, che la società Exor procedesse alla modificazione del contratto di equity swap citato.

Contestualmente all’irrogazione della sanzione amministrativa viene presentata altresì una denuncia alla procura, da parte della stessa Consob, per violazione dell’art. 185 co. 1 TUF ([6]), con conseguente esercizio dell’azione penale.

Era solo due anni prima che la Grande Camera della Corte, chiamata ad esprimersi sul quesito se la seconda irrogazione in questione violasse il principio convenzionale del ‘ne bis in idem’, aveva proclamato il principio (molto più garantistico) secondo il quale celebrare un processo penale, dopo l’irrogazione di una sanzione amministrativa da parte della Consob – solo formalmente qualificato come amministrativo, ma che sostanzialmente dotato di natura penale, alla luce degli indicatori della stessa corte EDU – viola il principio del ne bis in idem contenuto al protocollo n° 7, art. 4. In altre parole, è sufficiente il requisito della natura sostanzialmente penale della seconda sanzione, e che questa intervenga a punire l’idem factum, perché possa da tali rilievi automaticamente discendere la violazione del principio in esame. Posizione ben diversa, come noterà il lettore, da quella assunta, solamente due anni dopo, nel caso ‘A. e B. c. Norvegia’, in cui, oltre a valorizzare il requisito della ‘connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta’ (dando così auge ad una giurisprudenza rarefatta oltre che minoritaria), non riesce nemmeno nell’intento di conferire certezza per quanto concerne l’accertamento del criterio in esame. Pienamente condivisibili appaiono, pertanto, le feroci critiche del giudice Pinto.

E' il caso di dire, in chiusura, che la ‘garanzia legale’, sancita dal caso Stevens, è scaduta.

 

Note e riferimenti bibliografici

[1] Il testo dell’art. 6 co 1 TUE dispone che “L’Unione riconosce i diritti, le libertà ed i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea”, alla quale viene riconosciuto “lo stesso valore giuridico dei trattati”.
[2] Sentenza R.T. c. Svizzera, 2000; Nillson c. Svezia, 2005.
[3] In questo secondo orientamento si colloca il precedente più importante, insieme alla sentenza in esame, ossia la Sentenza Grande Stevens c. Italia, 2014.
[4] In questa situazione i giudici di Lussemburgo hanno pacificamente ritenuto illegittime le ipotesi in cui, a seguito di una precedente sanzione penale, si proceda ad irrogare una seconda sanzione che, solo formalmente amministrativa, si rivelasse sostanzialmente penale.
[5] Il quale, nella formulazione vigente all’epoca delle contestazioni, prevedeva: “salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 20.000 ad euro 5.000.000 chiunque, tramite mezzi di informazione, compreso internet o ogni altro mezzo, diffonde informazioni, voci o notizie false o fuorvianti che forniscano o siano suscettibili di fornire indicazioni false ovvero fuorvianti in merito agli strumenti finanziari”. Il testo è rimasto successivamente identico nella sua formulazione, intervenendo la legge n° 262/2005 solamente ad innalzare i minimi e i massimi edittali di pena, quintuplicandoli. Pertanto, oggi la medesima condotta è punita con la sanzione “da euro 100.000 ad euro 25.000.000”.
[6] A mente del quale “Chiunque diffonde notizie false o pone in essere operazioni simulate o altri artifizi concretamente idonei a provocare una sensibile alterazione del prezzo di strumenti finanziari, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro 20.000 a euro 5.000.000”.