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Pubbl. Mer, 1 Feb 2017
Sottoposto a PEER REVIEW

La natura giuridica della responsabilità della Pubblica Amministrazione

Rita Ciurca


Responsabilità della P.A., tesi a confronto e rimedi esperibili.


 

 

Sommario: 1. L’evoluzione nel riconoscimento della responsabilità della P.A.; 2. La natura della responsabilità della P.A.; 2.1. Responsabilità extracontrattuale; 2.2. Responsabilità contrattuale da “contatto sociale”; 2.3. Responsabilità precontrattuale; 2.4. Responsabilità sui generis; 3. Il risarcimento dei danni in forma specifica e per equivalente; 4. Questioni processuali; 4.1 Il riparto di giurisdizione; 4.2 La c.d. pregiudiziale amministrativa.

 

1. L’evoluzione nel riconoscimento della responsabilità della P.A.

Per molti anni nel nostro ordinamento era diffusa l’idea che la disciplina della responsabilità civile non fosse applicabile alla P.A. e la giurisprudenza per lungo tempo ha negato la possibilità di riconoscere tutela risarcitoria nell’ipotesi di lesione di interesse legittimo causata da un illegittimo uso del potere da parte della P.A. stessa. Tale atteggiamento di chiusura si fondava su una duplice argomentazione, una di natura sostanziale e l’altra di natura processuale.
L’argomento di natura sostanziale si fondava sulla c.d. concezione soggettiva dell’illecito aquiliano: in base ad essa, l’elemento dell’ingiustizia del danno, quale presupposto richiesto dall’art. 2043 c.c. per la risarcibilità dello stesso, andava inteso quale danno prodotto non iure e contra ius; quanto a quest’ultima connotazione, in particolare, si sosteneva che l’ingiustizia del danno richiedesse la lesione di una situazione soggettiva prevista e tutelata dall’ordinamento nelle forme del diritto soggettivo perfetto.
L’argomento processuale, invece, faceva leva sulla struttura bifasica del sistema di giustizia amministrativa allora vigente, in forza del quale pur riconoscendosi in capo al g.o. il potere di condannare al risarcimento, esso era ritenuto, in applicazione del criterio della causa petendi, privo di giurisdizione a fronte di una richiesta di risarcimento da lesione di interesse legittimo; dall’altra parte pur essendo il g.a. munito della giurisdizione in merito alla cognizione dell’interesse legittimo, esso era privo del potere di condannare al risarcimento del danno.
Tuttavia lentamente iniziò a farsi strada l’idea che la P.A. non poteva sottrarsi alla responsabilità civile nei casi in cui non agisse con l’esercizio dei suoi poteri pubblici autoritativi ma ponesse in essere, così come i soggetti privati, delle semplici condotte materiali o utilizzi le sue capacità di diritto privato.
Si iniziarono a registrare passi di apertura anche grazie alle disposizioni di diritto comunitario in materia di ricorsi nelle procedure di appalto. In tal senso l’art. 13, l. 142/1992, stabilì, nello specifico settore degli appalti, la ristorabilità della violazione di posizioni (ritenute dai più di interesse legittimo) patite dai soggetti che avessero subito una lesione a causa di atti compiuti in violazione del diritto comunitario in materia di appalti pubblici e delle relative norme interne di recepimento. Ciò, tuttavia, senza incidere sul sistema bifasico di doppia tutela e limitatamente agli appalti c.d. “soprasoglia”.
Sul versante giurisprudenziale si assisteva alla risarcibilità degli interessi legittimi oppositivi sulla base della teoria dell’affievolimento e la conseguente loro riconduzione a posizioni di diritto soggettivo. In particolare nel caso dell’atto ablatorio che incideva illegittimamente il diritto originario di proprietà del privato, comportandone l’affievolimento e/o la degradazione a mero interesse legittimo. 
Pertanto il soggetto danneggiato doveva prima impugnare l’atto innanzi al g.a. e poi una volta ottenuto l’annullamento richiedere al g.o. il risarcimento del diritto ingiustamente affievolito che era riemerso in seguito all’eliminazione retroattiva dell’atto.
Il momento di svolta si ebbe con la famosa decisione n. 500 del 1999 delle SS.UU. civili della Corte di Cassazione (1) che provvide a ribaltare l’orientamento tradizionale che negava la risarcibilità degli interessi legittimi.
Il nuovo approdo venne raggiunto grazie ad un’attenta analisi dell’evoluzione del quadro giurisprudenziale e normativo, gli stessi giudici nella pronuncia affermano che il dogma dell’irrisarcibilità degli interessi legittimi è stato sottoposto negli anni ad un lento processo di erosione sia nell’ambito dei rapporti tra privati sia nei rapporti con la P.A. Di conseguenza le SS.UU. riconoscono all’art. 2043 c.c. il valore di clausola generale primaria che attribuisce il diritto al risarcimento del danno ogni volta che è cagionato un “danno ingiusto”, inteso come lesione di qualsiasi interesse al quale l’ordinamento attribuisce rilevanza (e non quindi solo lesione di un diritto soggettivo) e da mettere in comparazione con il contrario interesse vantato dal danneggiante.
La Corte specifica, altresì, che la lesione dell’interesse legittimo non è sufficiente a riconoscere il risarcimento, essendo necessario che ricorrano tutti i requisiti, oggettivi e soggettivi, dell’illecito. 
La Corte, inoltre, riconosciuta la natura spiccatamente sostanziale dell’interesse legittimo, avverte come per il suo risarcimento sia necessario che risulti leso l’interesse al bene della vita al quale l’interesse legittimo effettivamente si correla e che risulta meritevole di protezione alla stregua dell’ordinamento. Pertanto si impone, secondo la Corte, la necessità di differenziare le ipotesi di interessi legittimi oppositivi da quelle di interessi legittimi pretensivi, in quanto mentre i primi soddisfano istanze di conservazione della sfera giuridica personale e patrimoniale del soggetto, i secondi le istanze di sviluppo di tale sfera giuridica: mentre per i primi l’illegittimità del provvedimento determina, per così dire, in re ipsa l’ingiustizia del danno, per i secondi è necessario passare attraverso il giudizio di spettanza del bene della vita.

 

2. La natura della responsabilità della P.A.

Una volta individuate le situazioni giuridiche soggettive la cui lesione configura responsabilità della P.A., soffermandosi sul dibattito dottrinale e giurisprudenziale sulla natura giuridica della responsabilità in questione, occorre evidenziare che, nel corso del tempo, è stata sussunta nei seguenti paradigmi:
•    responsabilità extracontrattuale;
•    responsabilità contrattuale per inadempimento degli obblighi nascenti da un “contatto qualificato”;
•    responsabilità precontrattuale
•    responsabilità sui generis che di volta in volta assume le peculiarità proprie dell’una o dell’altra forma di responsabilità conosciuta nel diritto civile.

 

2.1 Responsabilità extracontrattuale

Una delle prime posizioni emerse in seno al dibattito sulla natura giuridica della responsabilità della P.A. è quella volta a configurarla come responsabilità aquilana di cui all’art. 2043 c.c.
Con la sentenza n. 500 si è riconosciuto che la qualificazione formale della posizione giuridica, ovvero la circostanza che il soggetto danneggiato vanti la titolarità di un diritto o di un interesse legittimo, non è più dirimente al fine della concessione del risarcimento del danno.
L’art. 2043 c.c. contiene una clausola generale e atipica la quale è volta a proteggere tutti gli interessi giuridici meritevoli di tutela per l’ordinamento, spettando, dunque al giudice, comparare i diversi interessi in conflitto. L’elemento oggettivo si configura, pertanto, in presenza di una violazione di legge che risulti lesiva dell'interesse al bene della vita al quale l’interesse legittimo si correla e che ovviamente tale interesse risulti meritevole di tutela alla luce dell’ordinamento positivo.
Con l’introduzione dell’art. 30 nel codice del processo amministrativo sembra che si sia chiaramente inquadrata tale responsabilità della P.A. per l’esercizio illegittimo della funzione amministrativa nella sfera della responsabilità aquilana di cui all’art. 2043 c.c.
Il legislatore ha accolto l’impostazione espressa dalle Sezioni Unite, le quali hanno sostenuto che al fine di identificare la sussistenza di un illecito della P.A., il giudice dovrà verificare se sussistono vari elementi quali, l’elemento oggettivo, corrispondente ad un danno ingiusto; il nesso di causalità ossia se l’evento dannoso sia riferibile ad una condotta della P.A. e infine un elemento soggettivo, ovvero se l’evento dannoso sia imputabile a titolo di dolo o di colpa alla P.A.

 

2.2 Responsabilità contrattuale da “contatto sociale”

Successivamente, alla luce delle recenti evoluzioni dell’ordinamento, si è fatto strada un nuovo modello tra gli interpreti ovvero quella della responsabilità da contatto qualificato tra privato e P.A. con l’avvio del procedimento amministrativo. Secondo tale dottrina minoritaria, infatti, il rapporto che lega il cittadino privato con la P.A. trova la propria rilevanze e disciplina generale nella l. 241 del 1990 nella quale sono numerose le fattispecie di contatto qualificato tra il privato e l’amministrazione. Conseguentemente l’estraneità del soggetto danneggiante e il soggetto danneggiato, elemento caratteristico della responsabilità extracontrattuale, non è possibile ravvisarla quando l’amministrazione danneggiante e il privato danneggiato sono entrambi parti di uno stesso procedimento amministrativo. Infatti il rapporto che si instaura tra privato e P.A. nell’ambito del procedimento, è stato accostato a quello che la dottrina civilistica definisce rapporto senza obbligo primario di prestazione, ma con obblighi di protezione della sfera giuridica della controparte. La fonte di questi obblighi è da individuarsi nell’art. 1173 c.c. che sancisce il carattere aperto delle fonti delle obbligazioni rinviando ad ogni atto o fatto idoneo secondo l’ordinamento.
A questa tesi sono state mosse varie critiche: secondo una prima posizione l’accoglimento della natura contrattuale della responsabilità de qua rischierebbe di aprire la strada alla tutela risarcitoria a prescindere dalla sussistenza della colpa e dello stesso danno; in secondo luogo la tesi della responsabilità contrattuale comporterebbe la possibilità di concedere il risarcimento del danno a prescindere dalla spettanza del bene della vita al quale si correla l’interesse legittimo. Il danno, infatti, consisterebbe nel semplice adempimento agli oboli sorti da una contatto amministrativo qualificato comportando un automatismo che avrebbe finito per dare maggiore importanza alla pretese partecipative piuttosto che agli interessi sostanziali.

 

2.3 Responsabilità precontrattuale

Nel dibattito sulla natura della responsabilità della P.A. si è fatta spazio, altresì, la tesi che ammette in capo alla P.A. una forma di responsabilità precontrattuale (2).
Per responsabilità precontrattuale si intende quella forma di responsabilità che si verifica qualora le parti, in sede di trattative, agiscono in violazione al principio di buona fede (art. 1337 c.c.), ponendo in essere trattative non serie o recedendo dalle stesse senza giustificato motivo.
Il principio di buona fede costituisce il fondamento del legittimo affidamento, poiché l’esigenza di tutelare la fiducia posta nel comportamento altrui poggia sulle regole di correttezza e di buona fede che gravano su tutti i consociati e specie tra le parti di un rapporto giuridico. I doveri di correttezza e buona fede (oggettiva), infatti, impongono di tener conto dell’aspettativa altrui (buona fede soggettiva) generata dal proprio comportamento. Di conseguenza è stata astrattamente riconosciuta la soggezione dall’amministrazione ai principi di correttezza e buona fede nel corso delle trattative contrattuali. Le ipotesi tipiche in cui è possibile ravvisare questa forma di responsabilità sono: la rottura delle trattative senza motivi idonei a giustificarla nonché la mancata comunicazione di cause di invalidità del contratto (art. 1338 c.c.).
Sulla responsabilità precontrattuale un importante chiarimento ci viene fornito dalla pronuncia dell’Adunanza Plenaria n. 6 del 2005.
Il Supremo Consesso della giustizia amministrativa chiarisce al riguardo che è sempre necessario distinguere la serie pubblicistica degli atti adottati dalla P.A. rispetto a quella privatistica dei comportamenti tenuti dalla stessa.
Qualora nell’ambito di una procedura di evidenza pubblica la P.A. adotta atti illegittimi, la tutela riconosciuta al privato sarà sicuramente quella dell’annullamento dell’atto illegittimo con il conseguente risarcimento danno, qualora, invece la serie pubblicistica degli atti è legittima, si può verificare il caso che la P.A. abbia tenuto un comportamento, sotto il profilo privatistico, lesivo del dovere di comportarsi secondo buona fede, quindi nonostante gli atti adottati siano legittimi la P.A. potrà astrattamene rispondere di responsabilità precontrattuale.

 

2.4 Responsabilità sui generis

In dottrina si è anche avanzata l’idea che la responsabilità della P.A. avesse carattere sui generis, destinata a partecipare di volta in volta delle peculiarità proprie dell’una e dell'altra delle forme di responsabilità conosciute nel diritto civile (3). In particolare, secondo tale impostazione, l’esercizio del potere autoritativo non sarebbe ascrivibile  a priori alla condotta delle parti di un rapporto contrattuale, caratterizzato da diritti ed obblighi reciproci né, tantomeno, nella condotta di chi cagiona un danno ingiusto in violazione del generale principio del neminem laedere. Secondo tale tesi, infatti, il giudice amministrativo deve di volta in volta accertare la condotta del soggetti coinvolti nel procedimento. Ovviamente la critica più incidente mossa a tale tesi è quella che poggia sulla totale assenza di una normativa di riferimento, dovendo rimettere tutto nelle mani del giudice che si trova a decidere sul caso concreto.

 

3. Il risarcimento dei danni in forma specifica e per equivalente

Una volta riconosciuta la responsabilità in capo alla P.A., la legge prevede diverse forme di riparazione. In particolare l’art.7, co. 3, l. n. 1034 del 1971 faceva riferimento al risarcimento per equivalente e alla reintegrazione in forma specifica.
Parimenti, oggi, l’art. 30 c.p.a. afferma che “può essere chiesta la condanna al risarcimento del danno ingiusto derivante dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria”, aggiungendo che “sussistendo i presupposti previsti dall’art. 2058 c.c., può essere chiesto il risarcimento del danno in forma specifica”.
In primo luogo l’art. 1223 c.c. nell'individuare le due componenti del danno emergente e del lucro cessante si atteggia a norma generale in materia di quantificazione del danno, il principio di riparazione integrale assume rilievo anche in materia di illecito aquiliano, atteso l'espresso richiamo all’art. 1223 c.c. operato dall’art. 2056 c.c.
I danni riparabili sono anche quelli che siano stati conseguenza mediata ed indiretta, purchè si presentino come effetto normale del fatto illecito. Le difficoltà di quantificazione del danno conseguente all'attività amministrativa porta a prevedere un uso massiccio della tecnica equitativa di liquidazione dello stesso. Quanto all’art. 1227 c.c., una questione molto discussa in passato aveva riguardato la possibilità di ricondurre all’ordinaria diligenza richiesta al danneggiato/creditore dal co. 2 al fine di evitare il danno o il suo aggravarsi, anche la proposizione dello strumento impugnatorio. L’opinione prevalente dava risposta negativa, in quanto individuava come limite all’attività dovuta dal danneggiato l’apprezzabile sacrificio. E tale doveva essere ritenuta la domanda giurisdizionale, dispendiosa e dall’esito incerto, come tale integrante una mera facoltà. 
Sul punto ha innovato l’art. 30, co. 3, c.p.a., il quale, al momento di determinare i criteri cui si deve attenere il giudice nella quantificazione del danno, facendo un implicito richiamo all’art. 1227, co. 2, c.c., esclude la risarcibilità dei danni “che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti”. 
Sulla norma la giurisprudenza amministrativa si è pronunciata ritenendola espressione del canone di buona fede e del principio costituzionale di solidarietà, come tale evincibile anche da una interpretazione evolutiva dello stesso art. 1227, co. 2, c.c. e quindi applicabile anche a fattispecie pregresse.
Per quanto riguarda l'altra forma di ristoro ovvero il risarcimento mediante reintegrazione in forma specifica può essere riconosciuto al privato in presenza di determinati presupposti. In particolare, la possibilità (da intendersi sia in senso sia materiale che giuridico) e la non eccessiva onerosità per il debitore (P.A.). Il Consiglio di Stato rapporta l’eccessiva onerosità più che al debitore-P.A., al pubblico interesse e alla collettività, su cui gravano gli oneri dell’azione amministrativa. Secondo l’opinione prevalente la fattispecie di cui all’art. 2058 c.c. ha natura risarcitoria – e non reintegratoria o di esecuzione forzata in forma specifica – ed è volta a ristabilire la situazione giuridica esistente al momento in cui si è verificato il danno, con l’attribuzione al danneggiato della medesima utilità giuridico-economica lesa dalla condotta illecita o, comunque, delle stesse utilità garantite dalla legge, non già quindi, come per l’altra forma di risarcimento, di utilità solo equivalenti.
Quanto al limite della “possibilità”, occorre distinguere, ai fini della sua disamina, tra interessi legittimi oppositivi e pretensivi. Gli interessi oppositivi trovano tutela attraverso l‘annullamento del provvedimento amministrativo illegittimo. Tuttavia, può accadere che la caducazione in sé e per sé non sia in grado di eliminare tutti gli effetti pregiudizievoli prodottisi (si pensi ad un’occupazione d’urgenza del fondo cui sia seguita la costruzione su di esso di manufatti che lo rendano inservibile).
Il risarcimento del danno si pone, pertanto, come strumento di tutela residuale ed integrativo della tutela non conseguibile integralmente con l’annullamento
Per tale tipologia di interessi la reintegrazione in forma specifica risulta generalmente ammissibile, postulando gli stessi la sussistenza del bene della vita che costituisce presupposto per l’ammissibilità del risarcimento in forma specifica. Per quanto riguarda gli interessi legittimi di tipo pretensivo la tutela annullatoria costituisce un’utilità solo parziale, non discendendo da essa l’attribuzione del bene della vita anelato. Ci si chiede allora se, in questo caso, sia esperibile il rimedio del risarcimento in forma specifica attraverso la condanna dell’amministrazione all’adozione del provvedimento.
La tesi prevalente nega una tale possibilità, in quanto l’adozione del provvedimento richiesto atterrebbe più ai profili dell’adempimento e del potere conformativo del giudicato, piuttosto che del risarcimento. 
Per altro orientamento, tale tutela sarebbe da ammettere in virtù di una visione più evoluta dei rapporti tra P.A. e cittadino ed in forza dell’esigenza di assicurare a quest’ultimo una tutela rapida ed effettiva che non debba passare attraverso la sequenza annullamento – inerzia della P.A. – ottemperanza. Una tesi intermedia ritiene invece possibile condannare l’amministrazione all’adozione del provvedimento solo nel caso di attività vincolata, con ciò facendo salva la riserva di amministrazione che invece viene sacrificata dal secondo orientamento.
Tale ultima posizione sembra trovare riscontro nel novellato testo dell’art. 34, co. 1, lett. c), c.p.a., a norma del quale il giudice, in caso di accoglimento del ricorso “condanna al pagamento di una somma di denaro, anche a titolo di risarcimento del danno, all'adozione delle misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio e dispone misure di risarcimento in forma specifica ai sensi dell'articolo 2058 del codice civile. L'azione di condanna al rilascio di un provvedimento richiesto è esercitata, nei limiti di cui all'articolo 31, comma 3, contestualmente all'azione di annullamento del provvedimento di diniego o all'azione avverso il silenzio”. 
Quanto ai rapporti tra reintegrazione in forma specifica e risarcimento per equivalente, sono rinvenibili in giurisprudenza due contrapposte posizioni in relazione alla questione relativa alla sussistenza tra i due rimedi di un rapporto di alternatività nel senso che è il ricorrente a scegliere se fruire dell’uno o dell’altro, ovvero un rapporto di priorità/sussidiarietà, nel senso che, fin dove possibile, occorre attribuire al ricorrente il bene della vita preteso e non il suo equivalente economico.
In ogni caso, nel rispetto del principio della domanda, il giudice non potrebbe concedere un rimedio in mancanza di espressa richiesta in tal senso.

Giova da ultimo osservare che, non di rado, il giudice amministrativo tende ad identificare la reintegrazione in forma specifica con l’annullamento dell’atto illegittimo. Tuttavia, in una ricostruzione sostanzialistica dell’interesse legittimo, occorre riferire la reintegrazione in forma specifica al bene della vita che ne sta alla base.

 

4. Questioni processuali

4.1 Riparto di giurisdizione 

Un'ulteriore problematica, affrontata anche dalla sentenza n. 500 del 1999, è quello relativa al riparto di giurisdizione in merito al risarcimento del danno da lesione di interesse legittimo.
Nella pronuncia si evidenzia come l’esistenza di due diversi giudici competenti per il risarcimento del danno e di due giudizi in gran parte diversi: innanzi al g.a., nell’ipotesi eccezionale di giurisdizione esclusiva ex art. 35 D.Lgs. n. 80/98, ove il privato chiedeva anche l’annullamento del provvedimento, il giudizio si presentava concentrato in capo ad un unico giudice per i profili sia risarcitori che impugnatori, conoscendo tale giudice anche delle questioni risarcitorie limitatamente alle materie di cui agli artt. 33 e 34 D.Lgs. 80/98; innanzi al g.o., nelle materie in cui il g.a. ha giurisdizione di legittimità. Sussiste, infatti, una giurisdizione generale del g.o. per la risarcibilità degli interessi legittimi, attesa la natura di diritto soggettivo di tipo patrimoniale che caratterizza la pretesa creditoria del privato leso. Si obiettava, a tal riguardo, che la scissione concettuale tra interesse leso e diritto al ristoro entra in contrasto con il criterio di riparto ex art. 103 Cost.
Con la legge n. 205/2000 il legislatore opta per la generale investitura del g.a. a conoscere del risarcimento del danno, con la comprensione anche di settori rientranti nella giurisdizione di legittimità. La novità viene sancita nella riscrittura dell’art. 7 della l. n. 1034/1971. Sostituendo il termine “materia” con il termine “ambito di giurisdizione”, il legislatore ha inteso assegnare al g.a. il potere di conoscere tutte le questioni risarcitorie relative all’eventuale risarcimento del danno, ogniqualvolta si trovi ad operare nell’ambito della sua giurisdizione, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica. Se, da una lato, non può negarsi che il legislatore del 2000 faccia della giurisdizione del g.a. una giurisdizione piena, affiancando all’azione di annullamento quella risarcitoria, rompendo, in tal modo, il monopolio detenuto, sino a quel momento, dal g.o. in tema di risarcimento del danno, non può, dall’altro, non vedersi come il suo principale intento fosse quello di reintrodurre la pregiudiziale amministrativa, negata, in via pretoria, dalla sentenza 500/99, almeno rispetto al giudizio innanzi al g.o. 
Ai fini del positivo esperimento dell’azione risarcitoria la Corte Costituzionale (sent. n. 191/2006), delineando la distinzione tra comportamenti “in senso stretto” e comportamenti “amministrativi”, ha sottolineato l’imprescindibile ricorrere di due condizioni quali la presenza della P.A. nella controversia in veste di autorità e l'ingiustizia del danno quale conseguenza dell’esercizio della funzione amministrativa.
La Corte Costituzionale ha, altresì, affermato la sussistenza di una giurisdizione esclusiva del g.a. anche per le controversie relative a comportamenti riconducibili all’esercizio, pur se illegittimo, del pubblico potere della P.A., devolvendo, diversamente, alla giurisdizione del g.o. i comportamenti posti in essere in carenza di potere ovvero in via di mero fatto.

Con il codice del processo amministrativo (D.Lgs. n. 104/2010, All. A), il legislatore codifica i principi espressi dalla Consulta in tema di giurisdizione esclusiva e, all’art. 7 c.p.a. dispone che “sono devolute alla giurisdizione amministrativa le controversie nelle quali si faccia questione di interessi legittimi e, nelle particolari materie indicate nella legge, di diritti soggettivi, concernenti l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo, riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili, anche mediatamente, all’esercizio di tale potere, posti in essere da pubbliche amministrazioni ...”. 
Mentre, però, la Corte Costituzionale aveva utilizzato una definizione “negativa” della giurisdizione esclusiva, individuando le controversie che non possono essere sussunte nell’ambito della stessa, il c.p.a. delinea la suddetta giurisdizione in positivo: i comportamenti, in particolare, rientrano nella giurisdizione esclusiva del g.a. se risultano collegati, almeno in via mediata, al potere amministrativo.
Il secondo comma dell’art. 30, c.p.a., dispone oggi che “Può essere chiesta la condanna al risarcimento del danno ingiusto derivante dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria”.


4.2 La c.d. pregiudiziale amministrativa

Questione che riveste anch’essa particolare importanza e legata al riparto di giurisdizione è quella dei rapporti tra l’azione di annullamento e azione risarcitoria, ovvero la questione inerente la c.d. pregiudiziale amministrativa in forza della quale la condanna dell’amministrazione al risarcimento del danno ingiusto presuppone il previo annullamento dell’atto asseritamente lesivo. 
Sul punto si sono registrate diverse posizioni. Una prima tesi favorevole alla pregiudiziale e sostenuta dalla giurisprudenza amministrativa, affermava l’inammissibilità dell’azione risarcitoria allorché proposta in via autonoma, escludendo, quindi, che il giudice amministrativo potesse far luogo, nella sola prospettiva risarcitoria, all’accertamento incidentale della legittimità di un atto non impugnato nei termini decadenziali. 
Di contro sull’assoluta autonomia tra le due azioni si è da sempre espressa la giurisprudenza della Corte di Cassazione, fin dalla storica sentenza n. 500/99 con cui si riconosce, per la prima volta, all’interesse legittimo una tutela uguale a quella prevista per i diritti soggettivi e da successive pronunce delle Sezioni Unite sostenendo la sostanziale equiparazione delle posizioni di interesse legittimo e diritto soggettivo, si è, quindi, posta l’esigenza di assicurare alla prima la stessa pienezza di tutela risarcitoria riservata dall’ordinamento alla seconda, senza subordinare, quindi, l’accesso alla stessa al temine decadenziale legato all’azione di annullamento. Si rimarca, inoltre, l’intrinseca diversità delle pretese sostanziali sottese alle due azioni, contrapponendosi alla logica della tutela oggettiva propria del giudizio di annullamento, la tutela soggettiva sottesa alla pretesa risarcitoria del privato.
Infine si è raggiunta una tesi intermedia accolta dal codice del processo amministrativo l’art. 30, infatti, nel disciplinare l’azione di condanna nei confronti della P.A., prevede la possibilità che la pretesa risarcitoria sia azionata (anche) indipendentemente dal previo annullamento dell’atto assertivamente lesivo, assegnando a tal fine all’interessato un termine di decadenza di centoventi giorni. 
La norma, da leggere in combinato disposto con il co. 4 dell’art. 7 – il cui inciso finale prevede la possibilità che le domande risarcitorie aventi ad oggetto il danno da lesione di interessi legittimi e di altri diritti patrimoniali consequenziali siano introdotte in via autonoma – sancisce, dunque, l’autonomia sul versante processuale della domanda di risarcimento rispetto al rimedio impugnatorio.
Accanto all’affermazione dell’autonomia processuale della tutela risarcitoria si afferma anche un ampliamento delle tecniche di tutela dell’interesse legittimo mediante l’introduzione del principio della pluralità delle azioni. Si sono, infatti, aggiunte alla tutela di annullamento, la tutela di condanna (risarcitoria e reintegratoria ex art. 30), la tutela dichiarativa (azione di nullità del provvedimento amministrativo ex art. 31, co. 4) e, nel rito in materia di silenzio inadempimento, l’azione di condanna pubblicistica (c.d. azione di esatto adempimento) all’adozione del provvedimento, anche previo accertamento, nei casi consentiti, della fondatezza della pretesa dedotta in giudizio (art. 31 commi da 1 a 3).

Tuttavia, come autorevolmente sostenuto dall’A.P. n. 3/11, il codice, pur negando la sussistenza di una pregiudizialità di rito, ha mostrato di apprezzare, sul versante sostanziale, la rilevanza eziologica dell’omessa impugnazione come fatto valutabile al fine di escludere la risarcibilità dei danni che, secondo un giudizio causale di tipo ipotetico, sarebbero stati presumibilmente evitati in caso di tempestiva reazione processuale nei confronti del provvedimento potenzialmente dannoso.
Tale soluzione pare in linea con gli arresti della prevalente giurisprudenza comunitaria che considerano la domanda di annullamento e quella di risarcimento rimedi autonomi, escludendo, però, la favorevole valutazione della domanda risarcitoria quando essa mascheri un’ormai tardiva azione di annullamento e negando la risarcibilità dei danni che sarebbero stati evitati con la tempestiva impugnazione. Tali approdi assumono rilievo pregnante nel nostro ordinamento alla luce dell’art. 1 del c.p.a. che richiama espressamente i principi della Costituzione e del diritto europeo volti ad assicurare una tutela giurisdizionale piena ed effettiva.
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Note e bibliografia

(1) Cass., Sez. Un. civ., sent. 22/07/1999, n. 500.
(2) Cons. St., A.P., sent. 18/04/2006 n. 6, vedi anche Cons. St., sez. VI, sent. 25/07/2012, n. 4236.
(3) Cons. St., sez. IV, sent. 14 marzo 2005, n. 1047.

F. Caringella, I principi del Diritto Amministrativo, Roma, 2016.
R. Garofoli, Compendio superiore di Diritto Amministrativo, Roma, 2015.