Ecoreati: evoluzione delittuosa di fattispecie contravvenzionali
Modifica paginaFinalmente, dopo un iter parlamentare durato più di due anni, il 28 maggio 2015 è stata pubblicata su Gazzetta Ufficiale la legge n. 68, cosiddetta legge sugli ecoreati. Essa ha introdotto il nuovo Titolo VI-Bis nel nostro codice penale, rubricato ´Dei delitti contro l´ambiente´ e ha provveduto a superare quella obsoleta tipizzazione prevista dal D. Lgs. 152/06, il quale riconduceva i fenomeni più pericolosi per l´ambiente nella categoria delle contravvenzioni, apprestando una tutela sanzionatoria ´insignificante´ rispetto all´entità dei fatti considerati.
1. Premessa - 2. Il delitto di inquinamento ambientale - 2.1 Le espressioni compromissione e deterioramento - 2.3 Sulla significatività e la misurabilità del danno - 2.4 L’abusività della condotta – 3. Il delitto di disastro ambientale - 3.1 La vecchia ipotesi di disastro “innominato” - 3.2 Il nuovo art. 452-quater c.p. – 4. I delitti di traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività, di impedimento del controllo e di omessa bonifica – 5. Conclusioni
***
1. Premessa
La tutela dell’ambiente rappresenta una questione di interesse planetario. In Italia, particolarmente, il problema si è sempre posto in maniera pressante proprio a causa delle numerose istanze di tutela avanzate dai cittadini e della necessità di darvi una risposta giuridica quanto più adeguata.
Nel nostro ordinamento, la normativa di settore, prima dell’emanazione della legge n. 68/2015, pur fornendo un grado minimo di tutela, era tuttavia inadeguata ad affrontare il fenomeno dilagante del crimine ambientale, in quanto consentiva l’accertamento e la sanzionabilità di piccole e singole violazioni, ma non permetteva un intervento investigativo e repressivo efficace nei confronti delle aggressioni all’ecosistema caratterizzate da vastità e continuità dei fenomeni.
Sotto questo profilo, è opportuno ricordare che la tutela dell’ambiente sia stata, per anni, affidata a leggi speciali, confluite soltanto nell’ultimo decennio nel Testo Unico sull’Ambiente (D. Lgs. 152/06), nel quale, però, sono state previste solo due ipotesi delittuose: quella ex art. 206, che sanziona il traffico organizzato dei rifiuti, e quella ex art. 256-bis, che sanziona, invece, la combustione illecita di rifiuti, un reato introdotto appena nel 2013, in risposta a quel fenomeno di particolare allarme sociale che, sciaguratamente, attribuì ai territori del casertano e del napoletano la denominazione di Terra dei Fuochi.
Per lungo tempo, quindi, la lotta agli illeciti ambientali è stata fatta con la blanda arma delle contravvenzioni, con una tendenza politica trasversale che ha evidentemente ritenuto tale tipologia di reati una risposta adeguata anche per condotte di altissima potenzialità inquinante.
Fortunatamente, in presenza di un quadro legislativo di tal fatta, è intervenuta in soccorso la giurisprudenza, la quale, come spesso accaduto in questi ultimi tempi, ha svolto una formidabile attività suppletiva, utilizzando le tradizionali categorie di tutela e riconducendo, inizialmente, molti dei fenomeni inquinanti nell’alveo degli articoli 635 (reato di danneggiamento) e 674 (reato di getto pericoloso di cose) c.p.
In presenza dei fenomeni più eccessivi, più dirompenti, si è anche fatto ricorso al delitto di cui all’articolo 434 (crollo di costruzioni o altri disastri dolosi) c.p., nell’ambito del quale la giurisprudenza di merito e quella di legittimità hanno enucleato la figura del disastro ambientale, ritenendo che ricorresse tale forma delittuosa non solo in presenza di macroeventi di danneggiamento dell’ambiente a carattere violento e dirompente, ma anche dinanzi a fenomeni di progressiva contaminazione dei suoli, delle acque o dell’aria con sostanze nocive per la salute.
I risultati raggiunti, tuttavia, non sono stati pienamente condivisi dal Giudice delle leggi, il quale, nella sentenza n. 327/2008, sollevò non pochi dubbi sulla riconduzione del disastro ambientale nell’ambito dell’articolo 434 del c.p., auspicando un tempestivo intervento del legislatore; tuttavia, nonostante il monito della Corte Costituzionale, la riconduzione del disastro ambientale nel delitto ex art. 434 c.p. è divenuta vero e proprio diritto vivente, sebbene anche tale soluzione interpretativa, con gli anni, ha manifestato la sua inadeguatezza, in particolare nei casi in cui gli effetti nocivi della condotta si verificavano a distanza della sua cessazione, per i quali, purtroppo, la risposta di giustizia è stata falcidiata dal decorso dei termini di prescrizione.
E’ proprio in questo quadro normativo e giurisprudenziale che si inserisce la legge in esame, la quale ha inciso fortemente sul nostro codice penale, riportandovi un nuovo titolo, dedicato appunto ai “Delitti contro l’ambiente”.
2. Il delitto di inquinamento ambientale
Prima dell’entrata in vigore della legge n. 68/2015, i fenomeni più eclatanti di danno all’ecosistema potevano essere affrontati con il ricorso alla figura del reato di disastro ambientale. Tuttavia, poiché l’aggressione all’ambiente non sempre assumeva le vesti del danno grave ed irreparabile (elementi necessari ad integrare il reato ex art. 434 c.p.), non era possibile, purtroppo, perseguire e sanzionare quelle condotte “meno” gravi delle ipotesi contravvenzionali stesse.
Sotto questo profilo, il nuovo reato di inquinamento ambientale, come disciplinato dall’art. 452-bis c.p., interviene a colmare quella carenza normativa che impediva di “graduare” l’intervento penale in proporzione alla lesione concreta dell’ambiente. Ai sensi dell’art. 452-bis c.p., infatti, “è punito con la reclusione da due a sei anni e con la multa da euro 10.000 a euro 100.000 chiunque abusivamente cagiona una compromissione o un deterioramento significativi e misurabili: 1) delle acque o dell’aria, o di porzioni estese o significative del suolo o del sottosuolo; 2) di un ecosistema, della biodiversità, anche agraria, della flora o della fauna”.
Distaccandosi dal modello di illecito costruito sull’esercizio di attività inquinanti in difetto di autorizzazione, ovvero in superamento dei cd. valori soglia, la norma, ad una prima lettura, sembra prevedere due diverse ipotesi di reato, una di pericolo e una di danno, idonee a perseguire tutte le possibili aggressioni al bene ambiente. L’evento di danno, in particolare, sarebbe costituito dal deterioramento significativo e misurabile dei beni indicati dalla norma; l’evento di pericolo, invece, si configurerebbe con speciale riferimento all’espressione compromissione, la quale, se intesa in senso lessicale, sembra voler proteggere l’ambiente da ogni esposizione a rischio o danno.
Così delineato, l’art. 453-bis c.p. si configura come un reato a forma libera, in quanto l’inquinamento, nella sua materialità, può venire in essere non solo mediante condotte cd. attive (ossia, con la realizzazione di un fatto considerevolmente dannoso o pericolo per l’ambiente), ma anche mediante un comportamento omissivo cd. improprio ovvero, con il mancato impedimento dell’evento da parte di soggetti titolari di obblighi di prevenzione e di tutela del rischio.
2.1 Le espressioni compromissione e deterioramento
Il risultato della condotta materiale, in ogni caso, deve sostanziarsi in una compromissione o in un deterioramento di porzioni estese, o significative, del suolo e/o del sottosuolo. Il discrimine tra le due situazioni, tuttavia, non è agevole.
Dal punto di vista strettamente lessicale, la prima espressione si distingue dalla seconda per una proiezione dinamica degli effetti, configurandosi quale situazione tendenzialmente irrimediabile che può, pertanto, ricomprendere condotte pregiudizievoli per il futuro. Addirittura, nella seduta n. 8 del 10 dicembre 2013 della seconda Commissione della Camera (cfr. audizione Bernasconi) si è proposto di considerare il deterioramento come un’alterazione dell’ambiente reversibile attraverso processi rigenerativi naturali, differenziandolo così dalla compromissione, consistente, invece, in un’alterazione ambientale reversibile solo attraverso un’attività di bonifica o di ripristino.
In ambito normativo, i due termini si rinvengono insieme – ma in una diversa relazione tra di loro – nella definizione di danno ambientale fornita dall’art. 18 della legge n. 349/1986 (legge istitutiva del Ministero dell’Ambiente), nella quale viene individuato in “qualunque fatto doloso o colposo in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge che comprometta l’ambiente, ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in una parte, obbliga l’autore del fatto al risarcimento nei confronti dello Stato”. Tale formula corrisponde, più che altro, alla progressione misurabile (secondo parametri scientifici) del danno ambientale, in cui il deterioramento va a coincidere con una perdita del grado di usabilità e/o di funzionalità ecologica. Nel D. Lgs. 152/2006, invece, il termine compromissione non è quasi mai utilizzato e, laddove lo è (cfr. art. 77), non viene mai impiegato per indicare una situazione di danno attuale, per la quale si utilizza invece il termine deterioramento.
In assenza di riscontri testuali certi, si può dunque pensare che la formulazione richiamata rappresenti, più che altro, una endiadi e che, nonostante l’utilizzo della congiunzione “o”, il legislatore abbia voluto esprimere un unico concetto, permettendo di ritenere che l’evento dal quale la legge fa dipendere l’esistenza del reato, debba avere carattere rilevante affinché risulti integrata la nuova fattispecie.
2.3 Sulla significatività e misurabilità del danno
Circa le espressioni “significativi” e “misurabili” usate dal legislatore, va preliminarmente ricordato che nella formulazione definitiva della norma è stata abbandonata l’ipotesi che, nel pretendere un inquinamento “rilevante”, lasciava aperte tutte le perplessità sul rispetto del principio di determinatezza di cui al secondo comma dell’articolo 25 della Costituzione. Sarebbe stato infatti impossibile, per gli operatori giuridici, applicare o, viceversa, disapplicare la norma de quo atteso che la rilevanza di un atto inquinante sia suscettibile di una molteplicità di interpretazioni.
E’ facilmente immaginabile che gli aggettivi “significativo” e “misurabile” saranno oggetto di svariate interpretazioni, anche per distinguere il delitto in esame dalle contravvenzioni settoriali di inquinamento idrico, terreno e atmosferico. Il compito del legislatore, va detto, non era facile, considerato che la necessità di individuare le condotte penalmente rilevanti e i vincoli imposti dalla normativa europea suggerivano di incriminare condotte di inquinamento qualificato, cioè tali da attingere una significativa soglia di offesa.
Il concetto di “significativo e misurabile”, tuttavia, riprende la definizione di danno ambientale di cui all’art. 300 del Codice dell’Ambiente (“qualsiasi deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell’utilità assicurata da quest’ultima”) e la stessa nozione comunitaria di “danno ambientale” posta dalla direttiva 2004/35/CE, che usa l’espressione “mutamento negativo misurabile di una risorsa naturale o un deterioramento misurabile di un servizio di una risorsa naturale, che può prodursi direttamente o indirettamente”.
Insomma, se la “significatività” indica una situazione di chiara evidenza dell’evento di inquinamento in virtù della sua dimensione, la compresenza di un coefficiente di “misurabilità” rimanda alla necessità di una oggettiva possibilità di quantificazione, tanto con riferimento alle matrici aggredite che ai parametri scientifici (biologici, chimici, organici, naturalistici etc.), dell’alterazione, finendo, così, per richiamare inevitabilmente quella quantificazione del danno ambientale di cui all’art. 18 della legge n. 349/1986.
In assenza di riferimenti espressi, all’interprete si aprono due vie: la prima, tesa all’individuazione, nell’ordinamento, di valori numerici espressivi dell’offesa significativa e misurabile; l’altra, volta a fornire al giudice indici probatori non numerici. In relazione alla prima prospettiva, v’è da dire che non possono considerarsi rilevanti, di per sé, i superamenti dei valori soglia di settore, i quali, tuttavia, nonostante siano misurabili, non sono per ciò stesso sintomatici di un danno per l’ambiente, quanto piuttosto di un pericolo astratto, sanzionato con le apposite contravvenzioni.
Ciò posto, sembra preferibile abbandonare la prospettiva “numerica” a vantaggio di una prospettiva di natura “sistematica” e, per certi versi, “qualitativa”, nella quale la significatività e la misurabilità del danno dovrebbero desumersi in relazione alla frequenza ed all’ampiezza degli sforamenti dei valori soglia, oltre che dalla gravità e dalla persistenza nel tempo degli effetti prodotti dalla contaminazione sulle matrici ambientali, commisurabili anche in relazione ai costi ed alle difficoltà tecniche per il risanamento del territorio.
E’ probabile che i giudici sfrutteranno l’ampiezza degli aggettivi per riempirla di contenuto a seconda dei singoli casi, in base ad una valutazione globale dei vari indici sopra ipotizzati.
2.4 L’abusività della condotta
Particolare attenzione, infine, è da porre sull’utilizzo dell’avverbio abusivamente. Abbandonando una versione approvata in prima lettura dalla Camera dei Deputati, il legislatore, evidentemente, ha ritenuto opportuno l’utilizzo di tale avverbio per contrastare ogni incertezza circa la configurabilità del reato per effetto di condotte inquinanti consumate mediante infrazione di regole volte alla tutela ambientale. In tal modo, si è ritenuta salvaguardata l’esigenza di non incriminare comportamenti legittimi, connotati cioè dall’osservanza delle norme che regolano attività produttive potenzialmente inquinanti ma rientranti, comunque, in aree di rischio consentito dall’ordinamento, evitando, così, pericolosi ed ingiustificati vuoti di tutela.
Nella formulazione precedente l’evento di compromissione o deterioramento rilevante dell’ambiente era esplicita conseguenza di una condotta costituente, di per sé, illecito amministrativo o penale; il tenore letterale della disposizione suggeriva, apertamente, l’idea di un reato complesso, comprendente in sé altro illecito penale (o amministrativo) con in più l’evento tipizzato, ovvero la compromissione o il rilevante deterioramento ambientale. La sostituzione dell’avverbio abusivamente alla formulazione originaria ha consentito, invece, di focalizzare l’aspetto sostanziale della violazione connotante la condotta, evitando così la marginalizzazione di comportamenti che, dietro l’apparenza formale del rispetto delle discipline di settore, nascondano il sostanziale stravolgimento di autorizzazioni e prescrizioni di fonte legale e amministrativa.
3. Il delitto di disastro ambientale
Ai sensi dell’art. 452-quater c.p., fuori dai casi previsti dall’art. 434, chiunque abusivamente cagiona un disastro ambientale è punito con la reclusione da cinque a quindici anni. La norma colma il vuoto normativo che ha indotto la giurisprudenza di merito a far ricorso all’art. 434 del codice penale per sanzionare il disastro ambientale. Prima di procedere ad un analisi di merito della norma in esame, tuttavia, sarà necessario operare un raffronto con la precedente fattispecie normativa.
3.1 La vecchia ipotesi di disastro “innominato”
Nell’assetto previgente, il delitto di disastro ambientale veniva ricostruito operando un rinvio all’art. 434 c.p., il quale, è noto, sanziona il delitto di crollo di edifici e di altri disastri dolosi. Esso, in particolare, configura una chiara fattispecie di reato di pericolo a consumazione anticipata, perfezionato mediante la immutatio loci, purché idonea in concreto a minacciare l’ambiente di un danno di eccezionale gravità, seppure con effetti non necessariamente irreversibili per essere, per esempio, rimediabile grazie ad opere di bonifica.
La Corte di Cassazione (cfr. ex plurimis sent. n. 46189/2011, 3 Sez. Pen., Passariello, Rv. 251592) ha affermato che il delitto di disastro “innominato” sia integrato da un macroevento che comprende non soltanto gli accadimenti disastrosi di grande e immediata evidenza, verificatisi in un arco temporale ristretto, ma anche quegli eventi non immediatamente percepibili che possono realizzarsi in un arco di tempo molto prolungato, produttivi di una compromissione delle caratteristiche di sicurezza, di tutela della salute e di altri valori della persona e della collettività. In altre occasioni, la Cassazione (cfr. sent. 4675/2006, 4 Sez. Pen., P.G. in proc. Bartalini e altri, Rv. 235669) ha inoltre affermato che, per la particolare struttura dell’art. 434 c.p., il disastro ambientale innominato configuri una fattispecie delittuosa a consumazione anticipata, in cui ai fini della consumazione del reato è sufficiente il mero configurarsi del pericolo concreto, configurando, il verificarsi dell’evento stesso, una “semplice” circostanza aggravante.
3.2 Il nuovo articolo 452-quater c.p.
Con l’introduzione dell’art. 452-quater il legislatore ha inteso superare le serie difficoltà di applicazione della norma connesse, da una parte, alla struttura della fattispecie contemplata dall’art. 434 c.p.; dall’altra, alla non pacifica enucleazione del concetto stesso di disastro ambientale, laddove sganciato da eventi naturalisticamente confinabili in sicure coordinate spazio/temporali.
La consumazione del delitto, attualmente, si lega al verificarsi dell’evento – il disastro ambientale – e la ricostruzione della natura del reato passa attraverso la disamina delle specificazioni normative alla luce del sistema. In buona sostanza, si tratta di accertare l’alterazione irreversibile dell’equilibrio di un ecosistema e, soprattutto, l’offesa alla pubblica incolumità in ragione della rilevanza del fatto per l’estensione della compromissione o dei suoi effetti lesivi ovvero, per il numero delle persone offese esposte a pericolo.
Dunque, il delitto si consuma non con la mera alterazione dell’equilibrio di un ecosistema, ma nel solo caso in cui tale alterazione diventa irreversibile; nella fase di possibile transizione tra l’alterazione e la sua irreversibilità, ci si colloca all’interno del tentativo di disastro ambientale. E’ da notare, inoltre, come nella formulazione del nuovo articolo 452-quater c.p., l’elemento dimensionale e quello offensivo dell’evento sono richiesti non congiuntamente ma disgiuntamente, soluzione che può essere forse coerente con la diversa offensività dell’ipotesi delittuosa qui considerata e cioè, per l’appunto, la lesione del bene dell’ambiente piuttosto che l’attentato alla pubblica incolumità, si tratterà, dunque, di verificare se la formulazione risulti compatibile con il principio di determinatezza di cui all’art. 25, secondo comma, della Costituzione.
Una annotazione, infine, deve essere fatta circa il carattere irreversibile dell’alterazione. La prova della irreversibilità non desta particolari preoccupazioni ove si concordi che il disastro sia irrimediabile anche qualora occorra, per una sua reversibilità, il decorso di un ciclo temporale talmente ampio, in natura, da non poter essere rapportabile alle categorie dell’agire umano. Non sembra, cioè, poter avere credito un’opinione per la quale un ecosistema non può considerarsi irreversibilmente distrutto finché ne sia teoricamente possibile (ipotizzando la compresenza di tutti gli ulteriori presupposti favorevoli) un ipotetico ripristino in un periodo sensibilmente lungo di tempo. D’altra parte, è sufficiente che il disastro sia di ardua reversibilità, condizione che si verifica quando l’eliminazione dell’alterazione dell’ecosistema risulti particolarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti eccezionali.
4. I delitti di traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività, di impedimento del controllo e di omessa bonifica
Un breve cenno meritano, altresì, gli articoli 452-sexies, 452-septies e 452-terdecies del codice penale. Ai sensi dell’art. 452-sexies c.p., “salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da due a sei anni e con la multa da euro 10.000 ad euro 50.000 chiunque abusivamente cede, acquista, riceve, trasporta, importa, esporta, procura ad altri, detiene, trasferisce, abbandona o si disfa illegittimamente di materiale ad alta radioattività”. Stante la puntuale disamina delle condotte criminose, che impedisce qualsiasi interpretazione della norma che non sia puramente letterale, occorre porre l’accento sulla nozione di materiale ad alta radioattività.
Tale nozione non è definita dalla norma in esame, ma la disciplina di settore offre una molteplicità di definizioni. In tali casi, tuttavia, le definizioni sono fornite ai fini dell’applicazione dello specifico testo normativo e sembrano difficilmente esportabili per fini diversi, sicché l’unico elemento significativo per individuare i materiali presi in considerazione dalla norma sembra quello dell’alta radioattività dello stesso. Resta, tuttavia, un concetto è estremamente generico, anche alla luce delle attuali conoscenze scientifiche che si basano su parametri scientifici e, pertanto, l’auspicio per il futuro è che il legislatore riesca a definire, con estrema chiarezza, i parametri diretti a definire l’alta radioattività di un determinato materiale.
La stessa puntualità nell’elencazione delle condotte di reato caratterizza l’art. 452-septies c.p., il quale sanziona (con la reclusione da sei mesi a tre anni) le attività di chiunque, negando l’accesso, predisponendo ostacolo o mutando artificiosamente lo stato dei luoghi, impedisce, intralcia o elude l’attività di vigilanza e controllo ambientali e di sicurezza e igiene del lavoro, ovvero ne compromette gli esiti. Tale previsione introduce una specie di reato a forma vincolata, che non presta, pertanto, il fianco ad argomentazioni circa il mancato rispetto del principio ex art. 25, secondo comma, della Costituzione; ciononostante, la norma non costituisce nemmeno un corollario di quanto disposto dagli articoli precedenti, in quanto è destinata a trovare applicazione tutte le volte che sia ostacolato un campionamento o una verifica ambientale.
Un breve cenno merita, altresì, la disposizione ex art. 452-terdecies c.p., per la quale “salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, essendovi obbligato per legge, per ordine del giudice ovvero di un’autorità pubblica, non provvede alla bonifica, al ripristino o al recupero dello stato dei luoghi è punito con la pena della reclusione da uno a quattro anni e con la multa da euro 20.000 ad euro 80.000”. Anche stavolta, il legislatore ha improntato la propria azione a criteri di puntualità e tassatività nella descrizione della fattispecie criminosa; tuttavia – ed è forse l’aspetto più importante della disposizione in esame – più che in presenza di un fatto “autonomo” di reato, sembra quasi di trovarsi al cospetto di una norma “conclusiva”, ovvero di una norma pensata a “chiusura” del titolo VI-bis del codice penale, degradando, tale fattispecie, ad una forma liminare di post factum criminoso, punito dal legislatore a causa della mancata osservanza, da parte di un soggetto già colpevole di un delitto contro l’ambiente, del contenuto di una sentenza emessa dal giudice italiano.
5. Conclusioni
Al cospetto dell’atto legislativo licenziato dal Senato in data 19 maggio 2015, la disposizione più qualificante della volontà del legislatore di contrastare in maniera “globalizzata” le violazioni ambientali, ben al di là delle nuove figure di reato sopra esaminate, appare quella che introduce una aggravante: ci si riferisce alla cd. “aggravante ambientale”, prevista dall’art. 452-novies del codice penale. Trattasi di una novità rivoluzionaria – la cui portata, ovviamente, potrà misurarsi solo attraverso l’applicazione giurisprudenziale – che adegua finalmente la nostra legislazione ordinaria ai precetti costituzionali ed agli insegnamenti della Consulta in tema di ambiente, proiettando la legislazione italiana ai vertici tra quelle dei Paesi UE.
Tanto in premessa, per esprimere una valutazione di carattere generale sulla complessiva costruzione legislativa che, come ogni complesso elaborato, soprattutto se proveniente da una fase preparatoria sofferta, non può certo manifestare la caratteristica della perfezione. Ma si può ben affermare che il nuovo titolo del codice penale metta a disposizione degli strumenti, prima del tutto inesistenti in tema di tutela ambientale, il cui pregio sarà dimostrato dalla loro concreta utilizzazione in sede giudiziaria, che potrà consentire eventuali messe a punto di natura legislativa, se occorrenti.
Chiarito subito in che maniera di tutela dell’ambiente i migliori presidi sono quelli che servono a prevenire le condotte che rechino pregiudizio, piuttosto quelli che valgono a sanzionarle dopo il verificarsi dell’evento nocivo, va comunque detto che è da ritenersi una svolta epocale quella che mette a disposizione degli organi dell’apparato repressivo dello Stato ben sei nuove figure di delitti.
Note e riferimenti bibliografici