• . - Liv.
ISCRIVITI (leggi qui)
Pubbl. Lun, 14 Set 2020

L´enigma della forma di governo perfetta: realtà o illusione?

Modifica pagina

Luana Leo
Dottorando di ricercaLUM Giuseppe Degennaro



Il contributo pone in luce le varie forme di governo adottabili in uno Stato democratico esaltandone le differenze. In particolare l´operato persegue un preciso intento: rinvenire taluni elementi che possano portare a pensare ad una forma di governo dalle caratteristiche ottimali. Tuttavia, tale proposito non sembra trovare successo in ragione della sussistenza di talune lacune in ogni forma di governo. Sul piano comunitario, la questione tende addirittura a compromettersi, in virtù della natura ”ibrida” dell´Unione Europea. La tematica, perciò, tende ad assere confinata ad angolo. Al pari del passato, anche il presente non sembra interessato ad offrire alcun tipo di contributo al fine di risolvere la spinosa questione.


ENG The contribution highlights the various forms of government that can be adopted in a democratic state, highlighting their differences. In particular, the work pursues a specific intent: to find certain elements that may lead to think of a form of government with optimal characteristics. However, this proposal does not seem to be successfull, due to the existence of gaps in every form of government. At the community level, the issue even tends to be compromised by virtue of the ”hybrid” nature of the European Union. The issue, therefore, tends to be confined to a corner. Like the past, the present also does not seem interested in offering any kind of contribution in order to resolve the thorny question.

Sommario: 1. La forma di governo: definizione e inquadramento. Il legame indissolubile con la forma di Stato; 2. La forma di governo parlamentare: caratteristiche comuni; 2.1 La forma di governo parlamentare in Italia; 3. La riforma di governo presidenziale: l’esempio statunitense; 4. Una terza via: il semipresidenzialismo; 5. La forma di governo dittatoriale: un esempio a sé stante; 6. Brevi cenni sulla forma di governo negli Stati socialisti; 7. Oltre lo scenario italiano: la forma “atipica” di governo dell’Unione Europea; 8. Conclusioni: è possibile pensare ad una forma di governo “perfetta”?

1. La forma di governo: definizione e inquadramento. Il legame indissolubile con la forma di Stato

La forma di governo, assieme alla forma di Stato, rappresenta una delle categorie più travagliate e discusse del panorama giuridico. Per tale motivo appare opportuno reperire una definizione al fine di spazzare via tutti i dubbi che nel corso del tempo sono venuti a galla. Generalmente, con l’espressione “forma di governo” si intende il diverso modo in cui ripartire la funzione di indirizzo politico[1] tra i vari organi di vertice dello Stato (tra cui Parlamento, Governo e Capo dello Stato) e le relazioni che intercorrono tra gli stessi. Secondo una parte autorevole della dottrina,[2] la forma di governo indica “il modo in cui le varie funzioni dello Stato sono distribuite e organizzate tra i diversi organi costituzionali, con particolare riguardo a quella parte dell’organizzazione statale nella quale si accentra la direzione politica dello Stato”. Un’ulteriore corrente di pensiero, invece, qualifica la forma di governo come “il complesso degli strumenti che vengono congegnati per conseguire le finalità statali e quindi quegli elementi che riguardano la titolarità e l’esercizio delle funzioni attribuite agli organi costituzionali[3].

Talvolta all’espressione in esame vengono conferiti significati affini ad ulteriori vocaboli: “assetto istituzionale”, “regime politico”, “sistema politico”, “sistema di governo”. Tale circostanza[4] discende dalle scelte di ciascuno Stato[5] (o di un autore)[6], influenzate non solo dagli elementi giuridici, ma anche da quelli politici[7].

Al fine di individuare i caratteri propri di ciascuna forma di governo, occorre tener conto di alcuni elementi, quali: le caratteristiche delle base sociale (omogenea o frammentata), la natura del sistema dei partiti (diretta al bipartitismo o al multipartitismo), il tipo di sistema elettorale (proporzionale o maggioritario), l’ingerenza indiretta esercitata dagli organi di garanzia (Corte costituzionale, ordine giudiziario). Da codeste considerazioni, ne discende palesemente che ogni ordinamento costituzionale presenta una propria forma di governo, divergente sia da quella vigente in un periodo storico antecedente, sia da quella ordinaria relativa agli altri sistemi costituzionali. Nonostante ciò, la tipicità dei singoli ordinamenti costituzionali non preclude completamente la possibilità di fondere le diverse esperienze[8].  

Per comprendere il concetto di forma di governo è necessario accennare brevemente al principio della separazione dei poteri[9]. Una valida analisi della forma di governo prende le mosse dal contesto liberale[10], epoca di glorificazione del principio della separazione dei poteri, inteso come meccanismo di tutela delle libertà individuali. In virtù di tale principio, ciascun organo deve esplicare una specifica funzione statale senza interferenze reciproche. In particolare, alla funzione legislativa (attuata dal Parlamento) spetta il compito di creare la norma giuridica, ossia quella regola generale ed astratta che si rivolge a tutti i componenti di una determinata collettività; alla funzione esecutiva (espletata dal Governo) incombe il compito di dare concreta attuazione alla norma emanata; infine, alla funzione giudiziaria (esercitata dalla magistratura) spetta il compito di interpretare e mettere in atto la norma, impiegandola per la risoluzione dei contenziosi insorgenti[11].

Tale principio è stato accolto dalla maggior parte degli Stati contemporanei, sebbene le soluzioni adottate siano diverse, specialmente con riguardo al rapporto tra titolare della funzione legislativa (il Parlamento) e titolare della funzione esecutiva (il Governo)[12]. In talune realtà la separazione è rigorosa, in altre, invece, affiora un legame di fiducia tra il Parlamento ed il Governo; la figura del Capo dello Stato, poi, è controversa: in certi Paesi è simbolica, in altri è collocata al vertice dell’esecutivo. In base ai predetti dati, è possibile rinvenire alle principali forme di governo dello Stato costituzionale moderno, ossia forma dittatoriale, presidenziale, parlamentare e semipresidenziale. Ogni tipologia affonda le proprie radici nelle tre esperienze storiche del costituzionalismo: la forma dittatoriale della Rivoluzione francese, la forma presidenziale della rivoluzione nordamericana e la forma parlamentare del regime costituzionale inglese.

La nozione di forma di governo è strettamente connessa a quella di forma di Stato, poiché entrambe contribuiscono alla messa a punto degli assetti fondamentali dell’organizzazione statale. Tradizionalmente, la locuzione “forma di Stato” [13]  indica il rapporto che intercorre, in un determinato ordinamento, tra titolari dei poteri supremi (cd. Stato-apparato) e società civile. Come noto, l’espressione “forma di governo” delinea le modalità di ripartizione del potere tra i principali organi statali e le relazioni che vengono ad instaurarsi tra gli stessi. Le due nozioni sono in qualche maniera legate da un vincolo funzionale[14], in quanto spesso una forma di Governo trova realizzazione soltanto all’interno di una determinata forma di Stato[15].

La forma di Governo, altresì, rappresenta lo strumento di realizzazione della forma di Stato, ossia della finalità che muove lo Stato. Sebbene di frequente si parli di un legame inscindibile tra le suddette nozioni, occorre comunque sottolineare che la coincidenza tra di esse non è necessariamente richiesta, anche a dispetto di alcune storiche corrispondenze (ad es. nel passaggio dallo Stato assoluto allo Stato di diritto, l’evoluzione delle forme di governo segue quella della lotta tra aristocrazia e burocrazia)[16]. Tale rapporto funzionale, che trova concretizzazione nello Stato democratico-pluralista, non deve darsi per scontato.   Vi è, infatti, un punto limite oltre il quale le scelte sulla forma di governo incidono sulla natura democratica dello Stato, che è rappresentato dall’esigenza del rispetto dei principi costitutivi di quella forma di Stato[17].

2. La forma di governo parlamentare: caratteristiche generali   

La forma di governo parlamentare si caratterizza per l’indispensabile presenza di tre organi posti al vertice dello Stato: il Parlamento, il Governo, formato dai ministri con a capo il Presidente del Consiglio dei ministri, e il Presidente della Repubblica. In particolare, tale forma di governo, adottata in svariati Paesi dell’Europa Continentale, compresa l’Italia, presenta una caratteristica peculiare: il rapporto di fiducia tra l’organo legislativo e l’organo esecutivo, nonché tra Parlamento e Governo. L’istituto della fiducia porta l’Esecutivo, una volta formatosi, a manifestarsi dinnanzi al Parlamento, al fine di ottenere il consenso sul programma che intende realizzare. L’organo parlamentare detiene non soltanto il potere di concedere la fiducia, ma anche quello di revocare la stessa, attraverso l’approvazione di un’apposita mozione con la quale costringe il Governo a dimettersi.

Tuttavia, il suddetto strumento non è predestinato meramente alla finalità appena enunciata, in quanto lo stesso è spesso impiegato anche per superare condotte ostruzionistiche poste in essere dai gruppi parlamentari di opposizione (nel predetto caso, si parla di “questione di fiducia tecnica”). Le Camere, quindi, non sono chiamate a esprimersi soltanto sulla sussistenza del rapporto di fiducia[18], ma anche su di una puntuale questione di merito (mozioni, ordini del giorno, risoluzione, emendamenti)[19]. In detta forma di governo, il principio della separazione dei poteri si presenta in una versione moderata: Parlamento e Governo, pur continuando ad occupare una posizione distinta e di conseguenza ad assolvere una funzione ben differente, tendono comunque a relazionarsi direttamente, al fine di procedere all’unisono nella messa in atto della piattaforma programmatica su cui è stato raggiunto ab inizio il compromesso[20].

La responsabilità politica segna interamente l’operato dell’Esecutivo che, per rimanere in carica, come intuibile dalle affermazioni appena tracciate, deve mantenere integra la fiducia delle Camere. Occorre puntualizzare che tale responsabilità, a differenza di quella civile e penale, non è predeterminata, ma si fonda sulla concordia tra maggioranza parlamentare e Governo[21]. Un ruolo peculiare, di garanzia costituzionale, è rivestito dal Capo dello Stato[22] al quale competono una serie di interventi istituzionali di particolare importanza, tra cui: dar vita al Governo, procedere alla nomina del Presidente del Consiglio dei Ministri e, su proposta di quest’ultimo, i Ministri (art. 92 comma 2 Cost.); sciogliere anticipatamente le Camere laddove queste non riescano a formare una maggioranza (art. 88 comma 1 Cost.); rinviare, una sola volta, la legge alle Camere (art. 74 comma 1 Cost.); sciogliere il Consiglio Superiore della Magistratura qualora ne sia divenuto impossibile il funzionamento (art. 31 legge n. 195/1958); esercitare una forma di persuasione morale (moral suasion)[23], in qualità di rappresentante dell’unità nazionale, nei riguardi di tutti gli ulteriori soggetti istituzionali e dei cittadini. In Europa Continentale, al fine di accrescere la compattezza del Governo e conferire più efficienza al processo di decisione politica, si è proceduto all’introduzione di clausole di razionalizzazione della forma di governo parlamentare, ossia alla traduzione in norme scritte delle regole di funzionamento del sistema[24].

In particolare, la Costituzione italiana prevede una “razionalizzazione” piuttosto modesta, fondata sostanzialmente sulla previsione di un Capo dello Stato titolare di autonomi poteri e di una Corte costituzionale chiamata a monitorare sulla conformità delle leggi e degli atti aventi forma di legge a norme costituzionali[25]. Diversamente, la Germania ha optato per una razionalizzazione più forte, basata su tre novità: la sfiducia costruttiva[26], che consente alla Camera di votare la sfiducia al Cancelliere esclusivamente nel caso cui contestualmente elegga, a maggioranza assoluta, un successore[27]; la clausola di sbarramento elettorale (del 4%), volta a precludere la nomina in Parlamento dei membri iscritti a partiti politici meno rappresentativi; l’instaurazione di un rapporto di fiducia tra il Bundestag e il Cancelliere[28]. Occorre segnalare che, l’assenza di una discussione parlamentare sul programma politico formulato dall’aspirante capo del Governo e sulla relativa formula politica, sposta l’equilibrio interno a vantaggio della figura del Cancelliere[29]. Al pari dello Stato tedesco, anche la Spagna, a seguito dell’interminabile esperienza autoritaria franchista, ha recepito l’idea della forma di governo razionalizzata. La Costituzione spagnola, infatti, prescrive l’istituto della mozione di sfiducia costruttiva: la sfiducia del Premier[30] è, dunque, subordinata all’indicazione del nuovo soggetto preposto al vertice dell’Esecutivo. Così come il Cancelliere, anche il Premier occupa una posizione di   rilievo. Ben differente è la situazione che vige nei sistemi politici bipartitici,[31] tra cui quello britannico, nel quale si assiste alla valorizzazione dell’Esecutivo.

In tale ordinamento, è il Governo a dettare l’indirizzo politico, costringendo il Parlamento ad assecondarne l’azione ed i fini perseguiti. Il Premier, altresì, gode di una doppia investitura: quella del partito, che lo riconosce come proprio segretario e quella dell’elettorato, che mediante la nomina del partito, lo identifica direttamente come Capo del Governo.     

2.1 La forma di governo parlamentare in Italia

L’ordinamento del Regno di Sardegna, proclamato dallo Statuto del 1948, manifestava i tratti di una forma costituzionale pura, ossia una forma di governo dalla netta separazione dei poteri[32]. Pochi anni dopo, essa assunse la veste di una forma di governo parlamentare. In particolare, già nel 1861, al momento della proclamazione dell’unità d’Italia, la Camera dei deputati si era rivelata scaltra nell’imporsi al Sovrano in ordine alla designazione (e di conseguenza alla revoca) del Presidente del Consiglio e dei ministri. Nel corso del tempo, il potere del Sovrano cominciava sempre di più ad indebolirsi, anche se una riacquisizione dello stesso da parte del Re non venne a mancare nel periodo buio dei conflitti mondiali. Negli anni dell’Assemblea Costituente, la scelta della forma di governo parlamentare non venne ostacolata; tale condotta, peraltro, risulta giustificata. Da un lato essa era tracciata dalla Costituzione provvisoria, ossia il decreto legislativo luogotenenziale 16 marzo 1946, n. 98, emanato nel periodo transitorio[33]. Dall’altro vennero (con sorpresa) a mancare, da parte dei partiti politici, posizioni ostili nei confronti della forma di governo in oggetto.                               

La sovranità popolare veniva collocata da tutti al centro del sistema; differenti, invece, si rivelarono le posizioni avanzate dai partiti-protagonisti del predetto periodo storico[34]. Nel complesso, in Italia, la forma di governo parlamentare venne accolta con favore dalla maggior parte dei giuristi. Il richiamo allo Statuto, da parte di Sidney Sonnino, deve essere infatti interpretato come un caso isolato, tale da non ricevere particolare considerazione. Una parte della dottrina[35], sulla scia della Costituzione Repubblicana, qualifica la forma di governo parlamentare italiana con due aggettivi: monistica e maggioritaria. Tuttavia, se la prima trova una logica nell’accentramento della funzione di indirizzo politico nel Governo per via dell’investitura parlamentare, la seconda, al contrario, suscita svariate perplessità[36].

Tale concezione si scontra con un duplice ordine di ostacoli, rilevabili nel sistema politico: la sproporzionata disgregazione delle forze politiche, agevolata anche dal sistema elettorale proporzionato; la presenza di una conventio ad excludendum[37], che ha precluso la rotazione al Governo di partiti di opposto orientamento ideologico, scatenando così una serie infinita di pressioni tali da compromettere la governabilità e confinare quelle forze politiche che avrebbero potuto rappresentare una valida alternativa nella direzione politica dello Stato[38].  In ambito giuridico, tale fenomeno ha assunto l’appellativo di multipartitismo estremo e polarizzato. La situazione ha cominciato a prendere una piega diversa con la trasformazione del sistema politico realizzatasi all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso e imputabile, da un lato, al mutamento dei modelli di partito, dall’altro, alla divergente configurazione della competizione a fronte del cambiamento dell’intero sistema partitico avvenuto nel Secondo dopoguerra concretizzatosi con la legge elettorale maggioritaria.

 Nel suddetto periodo si è assistito al transito dal modello di democrazia consensuale[39] a quello di una tendenziale democrazia competitiva, fondata sulla logica bipolare nel processo elettorale e nel sistema dei partiti[40]. Sul piano parlamentare, tale transizione ha generato numerose conseguenze: per un verso, il contenimento delle pratiche negoziali tra i partiti di orientamenti opposti e per l’altro, il consolidamento dei distinti ruoli di maggioranza e minoranza[41].

3. La riforma di governo presidenziale: l’esempio statunitense

Verso la fine del XVIII secolo, negli Stati Uniti, la forma di governo costituzionale pura venne recepita – in veste duale – nella forma di governo presidenziale, assumendo quindi un atteggiamento divergente da quello adottato nell’Europa continentale, ove si è assistito ad un’evoluzione della forma pura in senso monista. Tale implementazione è avvenuta a fronte dell’approvazione della Costituzione degli Stati Uniti del 1787, che ha fatto propria l’esperienza inglese, reputata compatibile con le teorie relative alla separazione dei poteri. La forma di governo presidenziale, infatti, si caratterizza per un’applicazione marcata del principio di separazione dei poteri. La forma di governo in oggetto, a differenza di quella parlamentare, si contraddistingue per l’assenza di un rapporto fiduciario tra il Legislativo e l’Esecutivo. Nella suddetta forma di governo il Capo dello Stato occupa una posizione di particolare importanza in quanto detentore del potere esecutivo. La funzione legislativa, invece, compete al Congresso (ossia il Parlamento americano).

La carenza di una relazione fiduciaria tra l’organo legislativo e l’organo esecutivo e, di conseguenza, la sussistenza di un intenso legame tra il Capo dello Stesso e il Congresso trova definitiva consacrazione nell’elezione a suffragio universale di entrambi gli organi. Per quanto concerne la figura del Presidente, il sistema di elezione, apparentemente indiretto, poggia su di un’immediata investitura popolare[42]. La procedura di elezione[43] del Presidente e del Vice-Presidente solo formalmente si presenta a doppio grado: in ciascuno Stato vengono designati gli elettori presidenziali, in seguito raccolti in un apposito collegio (l’Electoral College)[44], a cui spetta la nomina delle due figure cardine[45]. Attualmente, la durata del mandato del Presidente è pari a quattro anni. In precedenza, invece, non era fissato alcun limite al numero dei mandati; tale vincolo è stato introdotto nel 1947 tramite il XXII Emendamento[46], con l’intento di porre un freno a possibili domini[47].

La Costituzione Americana riserva al Capo dello Stato un ampio margine di gestione nell’espletamento delle sue funzioni. Per codesta ragione, le competenze del Presidente vengono delineate a grandi linee[48]. Un ulteriore elemento che testimonia l’unitarietà dell’indirizzo politico consiste nell’assenza di un organo a sé stante. Il potere esecutivo, incarnato nella figura del Capo dello Stato, viene attuato per mezzo di una struttura collegiale, nominata Gabinetto[49], composto dai Segretari di Dipartimento, di nomina e revoca presidenziale, che assiste il Presidente nell’esecuzione delle sue funzioni. Prima di analizzare attentamente il rapporto tra Parlamento e Presidente, occorre delineare la struttura del primo. Il Congresso, qualificato da una parte della dottrina[50] come “il regno delle mediazioni tra interessi locali”, è composto da due Camere: il Senato, formato da due rappresentanti per ogni Stato Membro, rinnovato per un terzo ogni due anni e la Camera dei rappresentanti, costituita su base nazionale, in maniera proporzionale alla popolazione dei singoli Stati, che si rinnova ogni due anni.

In particolare, la Camera è presieduta dallo Speaker, mentre il Senato è guidato dal Vicepresidente. A prescindere dalla detenzione della funzione legislativa, al Congresso spetta anche la riscossione dei tributi, l’approvazione del bilancio annuale, la dichiarazione di guerra, la difesa comune, la regolazione del commercio con gli Stati stranieri, la promozione delle arti e delle scienze. Infine, la Costituzione degli Stati Uniti riserva a tale organo la facoltà di “Di fare tutte le leggi che saranno necessarie e utili per portare ed esecuzione i poteri predetti e tutti gli altri poteri di cui questa Costituzione investe il Governo degli Stati Uniti od i suoi Dipartimenti e funzionari”[51]. S

i tratta della cd. teoria dei poteri impliciti, mediante la quale il Congresso ha, nel corso del tempo, esteso il proprio potere legislativo, a detrimento dei singoli Legislatori federali[52]. Sebbene tra Presidente e Congresso[53] sussista una rigida separazione dei poteri, esiste un sistema di bilanciamento e di controlli reciproci tra i due poteri (checks and balances), in virtù del quale ciascuno di essi deve essere esercitato sotto il controllo dell’altro. In particolare, il Presidente detiene il potere di veto sospensivo delle leggi approvate dal Parlamento[54]; il superamento di detta opposizione è vincolato ad un’ulteriore deliberazione approvata con la maggioranza dei due terzi. L’organo legislativo, invece, dispone del potere di approvare le nomine presidenziali relative ad elevate cariche pubbliche (tra cui i giudici della Corte Suprema) e la facoltà, affiancata da sanzioni penali, di convocare funzionari amministrativi, allo scopo di compiere un controllo sulla politica del Capo dello Stato.

 Il Congresso, altresì, detiene il cd. potere di impeachment, ossia il potere di rimuovere dall’incarico il Presidente e il Vicepresidente per “tradimento, corruzione, o altri gravi reati”[55]. In definitiva, quella presidenziale è una forma di governo sensibilmente dualistica che mira a contrapporre i due poteri più importanti dello Stato, quali il Presidente e il Congresso. La solidità di tale forma di governo deriva dal meccanismo di bilanciamenti e di controlli reciproci che induce i due poteri a cooperare[56].       

4.  Una terza via: il semipresidenzialismo

Una corrente di pensiero qualifica la forma di governo presidenziale come quel particolare sistema che “esibisce la coesistenza d’un governo di tipo parlamentare e di un capo dello Stato di tipo presidenziale”[57]. Il tratto principale della forma di governo semipresidenziale, infatti, è quello di congiungere[58] aspetti propri della forma di governo parlamentare con altri tipici di quella presidenziale. In tale forma di governo convivono: un Presidente della Repubblica, dotato di legittimazione diretta, a cui spettano le competenze proprie del potere esecutivo – come avviene nella forma di governo presidenziale – ed un Governo collegiale influenzato dalla presenza del Parlamento, in virtù di un rapporto di fiducia tra gli stessi – al pari della forma di governo parlamentare. La forma di governo in oggetto, dunque, è caratterizzata da una struttura cd. bicefala, in quanto al Capo dello Stato si affianca la figura del Presidente del Consiglio, al quale compete la direzione dell’azione del Governo.

Mentre il Primo Ministro rientra in un Governo che necessita della fiducia parlamentare, il Capo dello Stato trae la sua legittimazione direttamente dall’elezione popolare. Il Presidente assolve sia poteri di indirizzo politico sia poteri di controllo nei confronti degli altri organi. Una peculiarità sta nel fatto che molti degli atti presidenziali non risultano controfirmati dal Governo, come invece avviene nella forma di governo parlamentare. Tale considerazione conduce ad un dato di fatto: il Capo dello Stato è politicamente responsabile degli atti che pone in essere. Egli attua poteri di indirizzo e di controllo nei confronti del Governo. In particolare, tale figura, a differenza di quanto previsto nella forma di governo parlamentare, provvede non soltanto alla nomina ma anche alla revoca dei ministri e presiede le sedute del Consiglio dei Ministri. Nei riguardi dell’Assemblea nazionale (una delle due Camere del Parlamento), i poteri di indirizzo e di controllo del Presidente si concretizzano nel sottoporre a referendum ogni progetto di legge attinente all’organizzazione dei pubblici poteri.

Al Capo dello Stato, altresì, è consentito di rivolgersi al Consiglio Costituzionale ai fini della sottoposizione di una legge, ove sussistano dubbi in merito alla sua legittimità costituzionale. Infine al Capo dello Stato compete l’adozione delle misure necessarie volte a prevenire minacce gravi e immediate tali da minare l’integrità del territorio, l’attuazione degli impegni internazionali e l’indipendenza della Nazione. Come ogni forma di governo anche quella in discussione trova terreno fertile in una reale esperienza di governo della società, ossia quella realizzata nella V Repubblica francese a seguito dell’adozione della Costituzione del 1958. Le radici di tale forma di governo affondano nei sistemi dualistici dello Stato liberale ottocentesco, nei quali il Re deteneva il potere esecutivo, ma una parte di esso veniva concessa al Primo Ministro ed ai ministri, responsabili dinnanzi al Sovrano e alla Camera elettiva, che poteva sfiduciarli[59]. Occorre puntualizzare che quella indicata non è stata la prima Costituzione a manifestare gli elementi tipici di codesta forma di governo. La Legge Fondamentale sulla forma di governo della Repubblica Finlandese del 1969, la Costituzione di Weimar e la Legge Fondamentale della Repubblica d’Austria del 1929 racchiudevano già taluni tratti caratteristici della forma di governo semipresidenziale[60].

In base al sistema elettorale della Costituzione del 1958, il Presidente doveva essere nominato da un collegio di circa 80000 elettori. Tuttavia, su intervento del Presidente De Gaulle, che non reputava appropriato il sistema elettorale corrente, la situazione prese una piega differente. Da detto momento, il Capo dello Stato viene designato direttamente dal popolo, attraverso un sistema elettorale a doppio turno. Il mandato, rinnovabile soltanto una volta, ha durata quinquennale[61]. Il funzionamento della forma di governo semipresidenziale appare fin troppo incostante. Tale variabilità interessa il rapporto tra Presidente e Primo Ministro. Una conferma di ciò è riscontrabile in un periodo storico (1981-1987) nel corso del quale si assistette prima alla nomina del socialista François Mitterrand nella veste di Presidente della Repubblica e poi alla formazione di una maggioranza di centrodestra. Il termine “cohabitation” trae le sue origini proprio da detta vicenda ed indica tutti i periodi nei quali la maggioranza presidenziale e la maggioranza parlamentare presentano una tendenza politica completamente opposta[62].  

5. La forma di governo dittatoriale: un esempio a sé stante

A cavallo tra le due guerre mondiali, nei Paesi dell’Europa continentale, lo Stato liberale lascia il posto ad un’ulteriore forma di Stato di tipo totalitario, incentrato sul principio del partito unico, che preclude la possibilità di un’opposizione. Tale forma di Stato richiedeva una struttura di potere tendente a riacquistare i caratteri dell’unitarietà e dell’accentramento caratteristici dello Stato assoluto[63]. Da codesta realtà nasce la figura del Capo del Governo, identificato come centro d’impulso del sistema costituzionale. Oggi, la forma di governo “dittatoriale”[64] è adottata soltanto nella Confederazione svizzera. Essa prevede un organo collegiale (il Consiglio federale)[65], eletto per quattro anni dalle Camere riunite in Assemblea federale[66], alla quale spetta l’autorità di governo della Confederazione[67]. Il Presidente della Confederazione viene eletto, con mandato di un anno, tra i membri stessi dell’Assemblea federale. Una peculiarità della suddetta forma di governo risiede nella mancata conoscenza di mozioni di sfiducia e crisi di governo.

Tuttavia, al fine di scongiurare un’eccessiva presa di potere, ai cittadini è riconosciuto il diritto di sorvegliare l’operato del Governo tramite il ricorso al referendum. In linea generale, tale forma di governo si contraddistingue, rispetto alle altre forme di governo, sia per la mancanza di figure burocratiche di particolare rilievo (ad es. il Capo dello Stato) sia per la spartizione del potere politico tra un Parlamento eletto e un Governo che esercita una duplice funzione (esecutiva e presidenziale). L’adozione di detta forma di governo è favorita dalla stessa architettura della Confederazione elvetica, quale piccolo Stato federale caratterizzato da una serie di minoranze etniche, linguistiche, religiose e politiche. L’esempio elvetico, dunque, è incompatibile con ulteriori realtà, e non solo a livello strutturale ma anche per la scarsa incidenza degli istituti di democrazia diretta.  

6. Brevi cenni sulla forma di governo negli Stati socialisti  

Delineare, anche in termini generali, i profili essenziali della forma di governo degli Stati socialisti[68], appare un compito arduo. Tale difficoltà deriva dalla diversità che caratterizza le singole realtà, sotto ogni punto di vista. Il suddetto discorso, infatti, attiene non soltanto alle forme di governo, ma anche alle forme di Stato, giacché la scelta di quest’ultima viene condizionata a differenti esigenze[69]. Al fine di rendere più agevole detto compito, appare utile avvalersi di un parametro di riferimento, in tale caso rappresentato dalla Costituzione sovietica del 1946[70].

In particolare, essa prevedeva una struttura statuale incentrata, da un lato, sul riconoscimento di ampie autonomie locali e, dall’altro, su di una serie di assemblee elettive (cd. Soviet) ripartite in forma gerarchica. Da tale tratto strutturale si ricava un dato fondamentale: le scelte dell’organo di livello inferiore cedono il passo a quelle dell’organo superiore. I rapporti tra le varie assemblee elettive, dunque, vengono regolati in ordine al principio gerarchico. Un aspetto cruciale della forma di governo sovietica concerne il ruolo del partito: ad esso compete, alla luce del testo costituzionale, un’importanza funzione di comando della collettività nella progettazione della società socialista, che si concretizza in una varietà di poteri peculiari. In base a tali elementi basilari, nel corso del tempo, gli Stati dell’est europeo, hanno introdotto vari di istituti specifici, differenziando così le proprie esperienze. Tuttavia, una corrente di pensiero parla di divergenza formale, di “facciata”[71].

7. Oltre lo scenario italiano: la forma “atipica” di governo dell’Unione Europea

In occasione della nascita della Comunità Europea[72], i Padri fondatori decisero di comune accordo di scollegare la forma di governo[73] dal tradizionale principio della separazione dei poteri, per una valida ragione: la suddetta istituzione avrebbe dovuto perseguire finalità specifiche di impronta internazionale, tale da non rendere necessaria la distinzione tra il potere esecutivo ed il potere legislativo[74].

Alla luce di ciò, si ritenne corretto tracciare nei trattati un equilibrio di poteri tra le istituzioni europee coinvolte nel processo decisionale, ciascuna portatrice di differenti interessi: il Consiglio, sede di rappresentanza delle istanze nazionali, il Parlamento, luogo di espressione degli interessi della popolazione europea, ed infine la Commissione, unico parametro di riferimento dell’interesse generale comunitario. Originariamente, il progetto istituzionale prevedeva una coordinazione tra il Consiglio e la Commissione. Il compromesso di Lussemburgo del 1965[75], accordando a ciascun membro del Consiglio europeo il diritto di veto su qualsiasi proposta da adottare, ha enfatizzato il ruolo del Parlamento, circoscrivendo fortemente il potere di iniziativa della Commissione.

Nel corso degli anni si è assistiti a continui e repentini mutamenti degli assetti istituzionali coinvolgenti le istituzioni europee. Una svolta decisiva avvenne con l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht del 1992[76], con il quale al cd. metodo comunitario, incentrato sulla procedura legislativa ordinaria, venne affiancato il metodo intergovernativo, tendente a conferire un ruolo di maggiore rilevanza agli Stati membri. In seguito a codesto evento, si assistette ad un’ulteriore transizione degli schemi istituzionali, dalla quale ne uscì vittorioso il Parlamento e fortemente indebolita la Commissione.

Il Trattato di Lisbona[77], entrato in vigore nel 2009, non si poneva l’obiettivo di sostituire i precedenti Trattati, piuttosto di apportare ad essi talune modifiche. In codesto Trattato, gli assetti istituzionali appaiono analoghi a quelli delineati con il Trattato di Maastricht: il Parlamento continua a mantenere un ruolo di particolare rilievo, indebolendo quello della Commissione. Una debilitazione di tale organo non deve essere salutata con favore, in ragione della funzione assolta dallo stesso, nonché quella di rappresentare l’interesse generale dell’Unione. A tal proposito, occorre puntualizzare che, la debilitazione della Commissione non potrebbe mai essere compensata dal rafforzamento del Parlamento. Se l’intento dei Padri fondatori del sistema europeo era quello di prescindere dal principio della separazione dei poteri, allo stato dei fatti, la separazione tra i due poteri (esecutivo e legislativo) non sembra essere stata rimossa completamente. Sul punto, parte della dottrina sostiene che i nuovi Trattati tendano, più che alla separazione dei poteri e alla messa a punto di un meccanismo di checks and balances, a promuovere la connessione tra le varie istituzioni intromesse nel processo decisionale[78].

Alla luce della situazione sopraccennata, appare superfluo conferire al sistema comunitario un’etichetta. Allo stato attuale, infatti, qualsiasi soluzione apparirebbe senz’altro disonesta.    

8. Conclusioni: è possibile pensare ad una forma di governo “perfetta”?

Una volta delineate le varie forme di governo adottabili in uno Stato democratico, sorge spontaneo interrogarsi in merito alla presenza di una forma di governo che prevalga sulle altre. La questione appare delicata e originale. Delicata, in quanto sostenere la supremazia di una forma di governo rispetto alle altre sarebbe un azzardo. Originale, giacché neppure agli intellettuali di un tempo interessava rilevare la forma di governo “perfetta”, piuttosto “fondare su principi razionali la paideia morale e politica di ogni reggitore e metterlo così nelle condizioni di instaurare un governo legittimo, fondato su un giusto rapporto tra governo e comunità”[79]. Una parte della dottrina moderna, pur non ponendosi il problema, è rinvenuta ad un dato di fatto: la forma di governo “perfetta” non esiste.

Al contrario, sussiste la forma governo adeguata ad un dato scopo e concretizzabile in determinate condizioni[80]. In un certo senso, presente e passato si vengono incontro. Nel corso dei secoli, infatti, si è avvertito il forte timore di sbilanciarsi sul tema. Un passo in più, forse, venne compiuto da Socrate, il quale qualificava la forma democratica come la forma di governo più vicina all’ideale universale, ma ad una condizione (“solo se in essa la cultura prospera”). Tale ideologia coincide con quella di un grande esponente della scena politica americana, Winston Churchill. Secondo quest’ultimo, infatti, la democrazia poteva anche non tradursi in una forma di governo perfetta, ma di certo era da preferire rispetto a qualsiasi ulteriore alternativa.

Pur condividendo il pensiero, esso si presenta fin troppo complesso[81] per essere applicato in un contesto, come quello odierno, che richiede risposte. Probabilmente, tale discorso necessita di essere proiettato sotto un’ulteriore ottica, più umana e meno politica.


Note e riferimenti bibliografici

[1] Per “funzione di indirizzo politico” si intende la determinazione della finalità da perseguire da parte dei poteri pubblici in un determinato momento storico.

[2] c. mortati, Lezioni sulle forme di governo, CEDAM, Padova, 1973, p. 3.

[3] In particolare, secondo g. de vergottini, Diritto costituzionale comparato, IX ed., CEDAM, Padova, p. 180, “Ogni forma di governo si inquadra in un più ampio regime politico da cui viene condizionata”.

[4] Per allontanare il rischio di costruire classificazione che non tengono conto affatto della realtà, nella teoria delle forme di governo molti studiosi hanno proposto di fare leva anche sui fattori quali l’assetto ed il funzionamento dei partiti e dei sistemi elettorali. L’uso di tali classificazioni, però, non viene accettato da tutti ed in particolare da quanti preferiscono tenere distinti concetti e categorie di scienze diverse, oppure paventano l’attenuarsi del valore prescrittivo della classificazione e, conseguentemente, l’idoneità della stessa a prestarsi a previsioni sul suo funzionamento (l. pegorato, a. rinella, Sistemi costituzionali comparati, Giappichelli, Torino, 2017, p. 336).

[5] Ad. es. in Italia, si fa leva sul termine “regime”, in quanto evocativa del regime fascista concretizzatosi dagli anni ’20 agli anni ’40. In Francia, si ricorre all’espressione “forma istituzionale”. Del tutto originale, invece, la formula adottata dalla Spagna che opta per “forma politica”.  

[6] Ad. es. per Niccolò Macchiavelli, la forma di governo designa il modo di essere del vertice del potere. Per un approfondimento sul pensiero dell’autore, si veda j-claude zancarini, Una scommessa di Machiavelli: Per una riforma repubblicana di Firenze (1520-1522), Ronzani, Monticello Conte Otto (VI), 2017; g. m. chiodi, e r. gatti, La filosofia politica di Macchiavelli, FrancoAngeli, Milano, 2014.

[7] Nella moderna teoria essi sono stati identificati, congiuntamente o disgiuntamente, nei rapporti intercorrenti tra gli organi costituzionali, nel criterio di attribuzione del potere a uno o più organi, nell’autonomia ovvero nella collaborazione tra gli organi, nella dislocazione del potere di indirizzo politico, nell’assetto dei partici politici, nei sistemi elettorali adottati, nel ruolo attribuito all’opposizione, nella persistenza in capo a questo o quel soggetto di uno specifico potere come quello di scioglimento delle assemblee parlamentari (l. pegorato, a. rinella, Sistemi costituzionali comparati, Giappichelli, Torino, 2017, pp. 336-337).

[8] Non va trascurato, tuttavia, che le classificazioni assolvono, innanzitutto, ad una funzione descrittiva: nel senso che ricavano dall’osservazione e dal confronto del funzionamento concreto di molteplici ordinamenti alcuni tipi astratti. Nel caso delle classificazioni costituzionali, poi, si è in presenza di categorie empiriche, non assolute, dal momento che possono essere messe in crisi da concrete decisioni assunte in Costituzione (g. rolla, Elementi di diritto costituzionale comparato, Vol. 4, Giuffré, Milano, 2018, p. 62).

[9] Il principio della separazione dei poteri costituisce una risposta all’esigenza di temperare l’assolutismo. I suoi principali teorici furono Montesquieu e Locke. Quest’ultimo immaginava un potere ripartito tra due organi: un sovrano, titolare della funzione esecutiva e della direzione degli affari esterni, ed un Parlamento, titolare della funzione legislativa (in d. solenne, a. verrilli, Compendio di Diritto costituzionale, Maggioli, Santarcangelo di Romagna (RN), 2012, p. 136). Tuttavia, tale principio venne sviluppato compiutamente per primo da Montesquieu ne “L’esprit des Lois”, attraverso una riflessione condotta sull’esempio della Costituzione d’Inghilterra e su quello del “governo dei re di Roma”. Secondo il pensatore francese, distribuzione dei poteri e libertà costituiscono un binomio inscindibile, in quanto il potere, cioè la sua organizzazione, appare servente alla realizzazione della medesima (e. di salvatore, Appunti per uno studio sulla libertà della tradizione costituzionale europea, Teoria del diritto e dello Stato, n. 1, 2006, p. 16). Secondo Montesquieu, Lo spirito delle leggi, s. scotta (a cura di), vol. I, UTET, Torino, 1952, p. 276, “Non vi è libertà se il potere giudiziario non è separato dal potere legislativo e da quello esecutivo. Se esso fosse unito al potere legislativo, il potere sulla vita e la libertà dei cittadini sarebbe arbitrario, poiché il giudice sarebbe al tempo stesso legislatore. Se fosse unito con il potere esecutivo, il giudice potrebbe”. Per un approfondimento sul pensiero di Montesquieu, si veda l. spadacini, Separazione dei poteri e funzione giurisdizionale, biblioFabbrica, Gussago (BS), 2012, pp. 15-30; r. carrè de malberg, La Théorie de Montesquieu sur les trois pouvoirs et leur séparation des pouvoirs, in Ètudes de politique et d’histoire, Paris, 1934; d. del bono, Montesquieu. Le dottrine giuridiche e politiche, Milano, 1943, pp.273. Molti studiosi ricollegano Montesquieu a Locke, accumulandoli nella paternità del moderno costituzionalismo fondato sulla separazione dei tre poteri dello Stato. In realtà, i presupposti da cui muove Montesquieu per asserire il principio della divisione dei poteri, sono profondamente diversi da quelli giusnaturalistici da cui muove Locke e affondano le loro radici nell’antica teoria dello Stato Misto, che ha la sua migliore definizione nel famoso VI libro delle storie di Polibio. Mentre in Locke la Civitas è istituita in virtù della decisione libera e volontaria di una moltitudine di individui uguali e isolati che conferisce a una persona rappresentativa il potere legislativo, potere sovrano al quale tutti gli altri sono subordinati, in Montesquieu l’ordine politico è fondato su una molteplicità di “potenze”, cioè di corpi che esprimono forze che devono essere tenute insieme, mantenute in equilibrio e poste in movimento (p. slongo, Il movimento delle leggi. L’ordine dei costumi in Montesquieu, FrancoAngeli, Milano, 2015, pp. 144-145). A partire dai primissimi anni del Novecento, l’idea di Montesquieu è stata messa in discussione dal costituzionalista francese Eisenmann, per il quale la separazione dei poteri in Montesquieu era un mito. Il potere legislativo, secondo il costituzionalista francese, era attribuito da Montesquieu non solo al Parlamento ma anche al Governo e contemporaneamente al Monarca; quest’ultimo, infatti, è dotato di una faculté d’empêcher, cioè di un potere di veto assoluto contro i progetti di legge avanzati dalle due Camere, i quali non divengono legge senza il consenso del re. Eisenmann sottolinea, poi, un altro aspetto che sembra incrinare seriamente l’interpretazione giuridica: il vocabolario utilizzato da Montesquieu contempla assai di rado il termine séparation, mentre viene fatto sovente ricorso alle idee della ‘distribuzione’, della ‘fusione’ e del ‘legame’ fra i poteri. Ancora più importante è il suo terzo rilievo: come può una separazione ‘rigida’ dei poteri armonizzarsi con gli scopi politici e costituzionali perseguiti da Montesquieu nell’Esprit des lois? Un potere statale si trova nelle condizioni di limitarne un altro soltanto se tutti e tre non stanno in completo isolamento e se non vi è squilibrio di forze. Per questo motivo, la lettura separatista presenta un modello di organizzazione dei poteri profondamente distorto e contraddittorio (in p. venturelli, Due secoli e mezzo di letture montesquieuiane, in Diritto e questioni pubbliche, n. 7, 2007, p. 194).

[10] Alla luce di ciò, ne discende che, non avrebbe alcun senso analizzare la forma di governo nell’ambito dello Stato assoluto, ove il sovrano è esclusivo titolare del potere.

[11] Tale separazione non si risolve in un mera “incomunicabilità”, quanto piuttosto in una funzione di reciproco controllo, dal momento che gli appartenenti all’uno e all’altro potere vi giungono attraverso canali selettivi di tipo diverso (in m. cavino, l. conte, Il diritto pubblico e la sua economia, Maggioli, Santarcangelo di Romagna (RN), 2014, p. 55).

[12] Gli Stati liberali, infatti, non applicarono in maniera rigida la separazione dei poteri. Ne discesero, dunque, delle interferenze reciproche, testimoniate dal rapporto tra Governo e Parlamento.

[13] Nel corso del tempo si è assistiti ad un’evoluzione delle forme di Stato con il passaggio dallo Stato assoluto allo Stato liberale, giungendo infine, a seguito delle esperienze particolari dello Stato totalitario e dello Stato socialista che hanno caratterizzato quasi interamente il XX secolo, allo Stato democratico e sociale.

[14] In definitiva, non può negarsi che la forma di Governo risente della forma di Stato nella quale si inserisce, mentre la forma di Stato risente a sua volta della forma di Governo (in a. pisaneschi, Diritto costituzionale, Giappichelli, Torino, 2017, p. 251).

[15] Ad es. la forma di governo parlamentare “classica” è incompatibile con lo Stato assoluto. Un’ulteriore esempio è rappresentato dallo Stato democratico-pluralistico che non potrebbe mai combinarsi con una forma di organizzazione del potere politico che prescinda dalla sovranità popolare, dal principio pluralistico, dal principio della separazione dei poteri e da meccanismi di garanzia dei diritti e delle libertà. Di conseguenze, le forme di governo di uno Stato democratico pluralistico includeranno nel loro assetto organizzativo di vertice almeno un organo direttamente legittimato dal popolo, in grado di riflettere le pluralità degli ordinamenti politici e di apprestare adeguate forme di tutela per i diritti delle minoranze politiche; inoltre, le funzioni saranno ripartite tra più organi costituzionali tutti collocati nel medesimo piano gerarchico, in modo da escludere il predominio dell’uno sugli altri e consentire forme di reciproco controllo e compensazione; infine, l’assetto complessivo della forma di governo, sotto il profilo degli strumenti istituzionali apprestati, dovrà risultare omogeneo rispetto al contesto politico-sociale con particolare riferimento al sistema dei partiti, al rilievo del fattore religioso e della componente etnica, al grado di adesione popolare a un sistema valoriale comune (l. pegoraro, a. rinella, Sistemi costituzionali comparati, Giappichelli, Torino, 2017, p. 337).

[16] p. sabbioni, Lezioni di diritto pubblico, EDUCatt, Milano, 2013, p. 203.

[17] m. volpi, Libertà e autorità: La classificazione delle forme dello Stato e delle forme, Giappichelli, Torino, 2016, p. 12.

[18] La posizione della questione di fiducia consiste, dunque, in una dichiarazione con la quale il Governo subordina la propria permanenza in carica all’esito di una votazione su di un oggetto, che è ritenuto così essenziale ai fini dell’attuazione del proprio indirizzo politico che, l’assenso o il dissenso di una delle Camere su di essa determina la permanenza o l’interruzione del rapporto di fiducia. Se la mozione di fiducia o sfiducia attengono alla gestione ordinaria del rapporto di fiducia, riferendosi, rispettivamente al momento della sua instaurazione e a quello della sua cessazione, sebbene in quest’ultimo caso ad iniziativa del Parlamento, la questione di fiducia è lo strumento cui il Governo ricorre al fine di verificare l’esistenza della maggioranza parlamentare, che, dopo avergli accordato la fiducia, ne continua a legittimare l’azione. In relazione alla verifica del rapporto fiduciario, nella prassi parlamentare la questione di fiducia può essere utilizzata dall’esecutivo o come strumento di pressione con cui rinsaldare una maggioranza divisa su un dato provvedimento ovvero per verificare l’andamento della stessa maggioranza in un momento particolarmente difficile e complesso della vita del Governo. La questione di fiducia può quindi essere posta in essere dall’Esecutivo, in occasione di una votazione che debba essere adottata dalle Camere ogniqualvolta lo ritenga opportuno, salvo i limiti stabiliti dal Regolamento parlamentare (in r. dickmann, s. staiano, Funzioni parlamentari non legislative e forma di governo, Giuffré, Milano, 2008, p. 122).  

[19] Per un approfondimento sul tema proiettato anche nel contesto nazionale, si veda n. lupo, Emendamenti, maxi-emendamenti e questione di fiducia nelle legislature del maggioritario, in Le regole del diritto parlamentare nella dialettica tra maggioranza e opposizione, Luiss University Press, Roma, 2007, pp. 27-44; c. f. ferrajoli, L'abuso della questione di fiducia. Una proposta di razionalizzazione, in Diritto Pubblico, n. 2, 2008, pp.587-636; e. aureli, L’uso del decreto legge nella XVII Legislatura, in Rivista AIC, n. 2, 2019, pp. 19-27; a. razza, Note sulla normalizzazione della questione di fiducia, in Rivista AIC, n. 3, 2016.

[20] i. nicotra, Diritto costituzionale, Giappichelli, Torino, 2013, p. 166.

[21] Sul punto, si veda g. u. rescigno, Responsabilità politica e responsabilità giuridica, in Rivista italiana per le Scienze Giuridiche, Jovene, Sez. 3, 2012, p. 342-345. Per un approfondimento sul tema proiettato nel contesto nazionale, si veda v. baldini, La responsabilità politica nella esperienza della forma di governo parlamentare italiana. Tra istanze di razionalizzazione del modello costituzionale e decrittazioni della comunicazione pubblica, in Rivista AIC, n.4, 2011.

[22] Sulla responsabilità politica del Presidente della Repubblica, si veda a. sperti, La responsabilità del Presidente della Repubblica: evoluzione e recenti interpretazioni, Giappichelli, Torino, 2010, pp. 244-248; n. pignatelli, La responsabilità politica del Presidente della Repubblica tra valore storico e "inattualità" costituzionale della controfirma ministeriale, in Forum di Quaderni Costituzionali, 2005.

[23] Sul tema, si veda c. negri, La moral suasion del Presidente della Repubblica nella forma di governo italiana, Giappichelli, Torino, 2018.

[24] Sul punto, si veda m. frau, L’attualità del parlamentarismo razionalizzato, in Nomos-Le attualità nel diritto, n. 3, 2016.

[25] La scelta italiana di una razionalizzazione debole discende dal ruolo decisivo assunto, nei primi cinquant’anni di storia della Repubblica, i partiti politici. Si è parlato, infatti, di un sistema a multipartitismo esasperato. In Italia, dal 1948 al 1994, i Governi che si sono succeduti hanno avuto una durata media di soli dieci mesi; in taluni casi, la continuità di azione politica è dovuta al fatto che i Governi hanno trovato nella democrazia cristiana il partito di maggioranza relativa, fondamentale nella determinazione delle scelte di governo (in p. sabbioni, Istituzioni di diritto pubblico, Giappichelli, Torino, 2018, p. 180). 

[26] Art. 67 Grundgesetz.

[27] In questo modo, si vorrebbero evitare le crisi al buio, cioè quelle crisi di governo che si aprono senza che le forze politiche abbiano scelto la soluzione da dare alla crisi, senza cioè che abbiano scelto il Governo che deve sostituire quello colpito da fiducia. In virtù della disciplina costituzionale, perciò, un Governo può essere rimosso solo se i partiti ed il Parlamento ne hanno pronto un altro con cui sostituirlo (in r. bin, g. pitruzzella, Diritto costituzionale, Giappichelli, Torino, 2017, p.151). Sul tema, si veda m. frau, Le origini weimariane del voto di sfiducia costruttivo e la prassi applicativa dell’istituto con particolare riferimento all’ordinamento tedesco, in Rivista AIC, n. 3, 2012. 

[28] La Costituzione tedesca del 1949, infatti, conferisce particolare risalto al ruolo espletato dal Capo del Governo, denominato Cancelliere. Per tale motivo, la suddetta forma di governo è detta “cancellierato”.        

[29] i. a. nicotra, Diritto pubblico e costituzionale, Giappichelli, Torino, 2017, p. 151.

[30] Sul tema, si veda g. duranti, L’instabilità di Governo e meccanismi di razionalizzazione: l’esempio spagnolo, in Rassegna Parlamentare, n. 1, 2015.

[31] Tale forma di governo è detta di gabinetto, poiché composta da un numero limitato di ministri.

[32] In particolare, al Re e al suo Governo spetta il potere esecutivo, al Parlamento il potere legislativo, alla magistratura il potere giudiziario. I due centri di potere – il Re e il Parlamento – sono espressione di differenti interessi sociali: il primo, che trova fondamento in forza del principio monarchico-ereditario, esprime gli interessi tradizionali della nobiltà; il secondo, che trova fondamento in forza del principio elettivo, per quanto limitato, esprime gli interessi emergenti della borghesia (in m. mogliani, i. m. pinto, Elementi di diritto costituzionale, Giappichelli, Torino, 2017, p. 102). Tale forma di governo si sviluppò in Inghilterra alla fine del XVII secolo.

[33] Per un approfondimento sul tema, si veda s. merlini, g. tarli, barbieri, Il governo parlamentare in Italia, Giappichelli, Torino, 2017, pp. 75-79.

[34] In particolare, per la Democrazia Cristiana, l’esercizio della sovranità popolare non spettava per intero al Parlamento, dato che nel “progetto” si prevedeva già l’istituzione della Corte Costituzionale e del referendum popolare. Inoltre, il progetto e la relazione Gonella sembravano voler riservare un ruolo importante alle autonomie locali, anche se le regioni, dichiarate “autonome” avrebbero dovuto rappresentare sia interessi territoriali che professionali. Nella risoluzione approvata dal comitato centrale del Partito comunista nell’aprile del 1946 troviamo invece maggiore prudenza nella rivendicazione del principio di autonomia locale, mentre il Parlamento sembra acquisire un ruolo del tutto preponderante (s. merlini, Il governo costituzionale, in Storia dello Stato italiano dall'Unità a oggi, r. romanelli (a cura di), Donzelli, Roma, 1995, p. 52).

[35] c. mortati, Le forme di Governo. Lezioni, CEDAM, Padova, 1973, p. 430.

[36] Al contrario, c. mortati, Le forme di Governo. Lezioni, CEDAM, Padova, 1973, p. 436, osserva che, in presenza di un multipartitismo “non maggioritario” le coalizioni sono di suscettibili di dissolversi in qualsiasi momento, mentre la funzionalità del sistema è lesa dalla presenza di forze politiche non idonee alla responsabilità di governo.

[37] All’indomani delle elezioni politiche del 1948 si affermò, quale regola del gioco politico, la c.d. conventio ad excludendum, un accordo tacito volto ad escludere le ali estreme dello schieramento partitico, e in particolare, il PCI e originariamente il PSI, dall’area del governo. La conventio ad excludendum ha costituito il principale fattore che impedito fino alla metà degli anni ’90 l’avvicendamento politico ai vertici dell’apparato statale (in r. manfrellotti, Diritto pubblico, Giappichelli, Torino, 2020, p.54). Sul tema, si veda a. d’andrea, Costituzione e partiti “antisistema”. Il PCI ed il contesto costituzionale e politico dell'Italia nel secondo dopoguerra, in Forum di Quaderni Costituzionali, 2007.

[38] m. galizia, Forme di stato e forme di governo: nuovi studi sul pensiero di Costantino Mortati, Giuffré, Milano, 2007, pp. 744-745.

[39] Tale modello, incentrato sul partito, preclude l’alternanza al Governo di opposizioni politiche.

[40] Sul tema, si veda s. fabrini, Riforma della costituzione o cambiamento del modello di democrazia?, in Crisi della politica e riforme istituzionali, g. giraudi (a cura di), Rubbettino, Soveria Manelli, 2005, pp. 35-41.

[41] l. guzzetta f. s. marini, Lineamenti di diritto pubblico italiano ed europeo, Giappichelli, Torino, 2014, p. 176.

[42] Ai fini della candidatura alla carica di Presidente, è indispensabile presentare i requisiti prescritti dall’art. 2 della Costituzione statunitense, secondo cui “Nessuno che non sia cittadino per nascita, o cittadino degli Stati Uniti all'epoca in cui questa Costituzione è adottata, è eleggibile all'ufficio di Presidente; né è eleggibile a tale ufficio chi non abbia compiuto l'età di 35 anni e non sia residente da 14 anni negli Stati Uniti”.

[43] Sul tema, si veda l. pirino, La legge elettorale presidenziale e le norme sulla campagna elettorale negli Stati Uniti d’America, in Forum di Quaderni Costituzionali, 2008

[44] Per un approfondimento sul tema, si veda g. conti, L’elezione del Presidente degli Stati Uniti in un’America polarizzata, in Diritti comparati, n. 1, 2016, pp. 8-14.

[45] In virtù dell’individuazione dei candidati da parte dei due grandi partiti (repubblicano e democratico), l’apparenza risiede che nel fatto che, al momento della “nomina degli elettori presidenziali”, gli elettori sono consapevoli del fatto che questi ultimi – in occasione della successiva elezione nel collegio presidenziale – si limiteranno a votare per i candidati rilevati dai rispettivi partiti.

[46] Ai sensi del XXII Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti: “Nessuno potrà essere eletto alla carica di Presidente più di due volte, e nessuno che abbia tenuto la carica di Presidente, o abbia agito come Presidente, per più di due anni di un termine per il quale qualche altra persona era stata eletta come Presidente, potrà essere eletto alla carica di Presidente più di una sola volta. Ma questo articolo non si applicherà a chiunque abbia tenuto la carica di Presidente quando questo articolo è stato proposto dal Congresso; ed a chiunque abbia tenuto la carica di Presidente o avrà agito come Presidente nel corso del mandato durante il quale questo articolo diventerà operativo, esso non impedirà di tenere la carica di Presidente o di agire come Presidente nella parte restante di tale mandato”.

[47] In particolare, tale Emendamento è stato introdotto a seguito delle quattro elezioni successive di F. D. Roosevelt alla presidenza.

[48] Ai sensi dell’art. 2, sez. 2, della Costituzione degli Stati Uniti: “Il Presidente sarà Comandante in capo dell'Esercito e della Marina degli Stati Uniti, e della Milizia dei diversi Stati quando chiamata al servizio attivo degli Stati Uniti; egli può chiedere l'opinione scritta del principale funzionario in ciascuno dei Dipartimenti dell'esecutivo su qualsiasi oggetto che attenga ai doveri dei rispettivi uffici, ed avrà il potere di concedere commutazioni di pene e grazie per offese contro gli Stati Uniti, salvi i casi di impeachment. Egli avrà il potere, con il parere ed il consenso del Senato, di stipulare trattati, purché vi concorrano i due terzi dei Senatori presenti; e con il parere ed il consenso del Senato nominerà gli Ambasciatori, gli altri Rappresentanti pubblici ed i Consoli, i Giudici della Corte Suprema e tutti gli altri funzionari degli Stati Uniti la cui nomina non sia qui altrimenti disciplinata, e che sarà stabilita con legge: ma il Congresso può con legge attribuire la nomina di questi funzionari inferiori, come riterrà conveniente, al solo Presidente o alle Corti giudiziarie o ai capi dei Dipartimenti [disposizione modificata]. Il Presidente avrà il potere di coprire i posti che si rendessero vacanti durante gli aggiornamenti del Senato, concedendo incarichi provvisori che dureranno fino alla fine della sessione successiva”.

[49] Tale struttura collegiale non è assimilabile al Governo tipico della forma parlamentare.

[50] g. u. rescigno, Democrazia e principio maggioritario, in Quaderni Costituzionali, n. 2, 1994, cit., p. 203.

[51] Art. 1, sez. 8, comma 18.

[52] Tale teoria, elaborata per la prima volta dalla Corte Suprema degli Stati Uniti, conferisce allo Stato federale non solo i poteri allo stesso spettanti in virtù della Costituzione federale, ma anche tutti i poteri necessari per esercitare adeguatamente i poteri espressamente attribuiti.

[53] I due organi si incontrano in un’unica occasione, ossia a fine gennaio nel momento in cui il Presidente si reca innanzi al Congresso riunito in seduta comune per pronunciare il “discorso sullo stato dell’Unione”. 

[54] Sul tema, si veda c. fasone, Le “trasformazioni” del potere di veto del Presidente degli Stati Uniti, tra diritto costituzionale e politica del diritto, in Diritti comparati, 2013; e. stradella, I poteri normativi dell’esecutivo negli Stati Uniti: alcuni spunti ricostruttivi, in Rivista AIC, n. 1, 2018, pp. 14-20. Sotto il profilo storico, si veda a. buratti, Fondare l’equilibrio. Il veto sulle leggi nelle due costituenti settecentesche, in Giornale di Storia Costituzionale, n. 23, I, 2012.

[55] Sul tema, si veda r. olivetti, La dinamica costituzionale degli Stati Uniti d’America, CEDAM, Padova, 1984. Per uno sguardo all’America meridionale, si veda f. spagnoli, Impeachment presidenziale in America Latina: una forma di responsabilizzazione dell’Esecutivo o un golpe istituzionalizzato?, in Diritto Pubblico Comparato ed Europeo, n. 3, 2019.

[56] Tale stabilità è conseguenza anche, se non principalmente, dell’assetto sociale e della struttura dei partiti. Nella struttura sociale degli Stati Uniti, infatti, che certamente non può essere portata come un esempio di eguaglianza, gli interessi di classe non sono però avvertiti come contrapposti (in a. pisaneschi, Diritto costituzionale, Giappichelli, Torino, 2017, p. 269).

[57] m. duverger, Echec au roi, Albin Michel, Parigi, 1978, p. 18.

[58] L’intento è quello di evitare i vizi di entrambe le forme di governo: le derive presidenzialistiche del modello presidenziale dovrebbero essere scongiurate attraverso il carattere bicefalo dell’Esecutivo; la sua forza e stabilità, insufficienti nel modello parlamentare, dovrebbero essere garantite dalla sua duplice legittimazione, derivante sia dalla fiducia parlamentare che dall’elezione popolare diretta del Capo dello Stato (in t. groppi, a. simoncini, Introduzione allo studio del diritto pubblico e delle sue fonti, Giappichelli, Torino, 2013, p. 214).  

[59] i. nicotra, Diritto pubblico e costituzionale, Giappichelli, Torino, 2013, p. 174.

[60] Tuttavia, il tendenziale funzionamento di tali esperienze di governo secondo i canoni tipici delle forme di governo parlamentari – se si esclude l’eccezione finlandese - non aveva indotto la dottrina a elaborare ulteriori categorie per inquadrare tali regimi (in a. g. lanzafame, La vis expansiva della rappresentanza, Giappichelli, Torino, 2019, p. 73).

[61] Si ricordi che, fino al 2000 la durata del mandata parlamentare è stata di sette anni. Con una legge fondamentale del 2000 tale periodo è stato ridotto a cinque.

[62] Per un approfondimento si veda e. grosso, La Francia, in Diritto costituzionale comparato, p. carrozza, a. di giovine, g. f. ferrari (a cura di), Laterza, Roma, pp. 169-171.

[63] Si ricordi che, le caratteristiche dello Stato assoluto: la nascita del concetto di “sovranità” come potere unitario, supremo e incondizionato, incardinato nel Re; la concentrazione delle funzioni dello Stato nelle mani del sovrano, la subordinazione dei singoli al potere del Sovrano.  

[64] Il suo nome deriva da quello dell’organo previsto dalla Costituzione francese del settembre 1795, che venne instaurata dai cd. termidoriani, e cioè da coloro che avevano rovesciato Robespierre e posto fine al periodo del “terrore”. L’esperienza fu chiusa con l’instaurazione del “consolat” da parte di Napoleone (in m. dogliotti, i. m. pinto, Elementi di diritto costituzionale, Giappichelli, Torino, 2015, p. 72).

[65] Si parla del cd. Direttorio.

[66] Tale organo equivale al Parlamento ed è composto da due Camere: il Consiglio Nazionale e il Consiglio di Stato.

[67] Occorre precisare che, l’elezione dei componenti il Consiglio da parte dell’Assemblea federale non vale ad instaurare un rapporto di fiducia tra i due organi, cosicché il Consiglio rimane in carica quattro anni, quale che sia il successivo orientamento politico delle Assemblee legislative (in t. martines, Diritto pubblico, Giuffré, Milano, 2009, pp. 70-71).

[68] La forma di Stato socialista si ispira alla dottrina marxista-lenista e si distingue per la collettivizzazione dei mezzi di produzione, per l’esistenza di un partito unico, il partito comunista e per la prevalenza assegnata al principio di eguaglianza sostanziale rispetto a quello delle libertà civili e politiche (in t. martines, Diritto costituzionale, Giuffré, Milano, 1986, p. 84).

[69] Tale scelta, a volte, è stata fatta dipendere dall’esigenza di rappresentare le entità periferiche, altre volte, ha prevalso la volontà di rappresentare unitariamente lo Stato (in g. lauricella, La struttura parlamentare dalla caduta del Muro all'Unione Europea, Giuffré, Milano, 2007, p. 89).

[70] Come noto, essa è stata sostituita dalla Costituzione del 1977 e poi sostituita in seguito al crollo della forma di Stato socialista. In particolare, l’approvazione della Costituzione sovietica del 1963 si pose in una linea di netta continuità con l’evoluzione che aveva contrassegnato la realtà politica e sociale della Repubblica, e quindi in una posizione di rottura con l’esperienza sovietica. Tra le principali novità introdotte, un ruolo di primaria importanza è stato comunemente ricondotto all’introduzione di un apposito sistema di giustizia costituzionale, dato che la forma di controllo politico, prevista nel sistema previgente, appariva ormai inadeguata, perché ritenuto inefficiente ed inaffidabile, per garantire una “più efficace tutela dei diritti e delle libertà dei cittadini, nonché delle prerogative dei consigli d’autogestione e delle unità federate, esposte costantemente alle prevaricazioni dell’organo legislativo (m. motroni, Il ricorso diretto di incostituzionalità in Croazia, in Patrimonio costituzionale europeo e tutela dei diritti fondamentali: il ricorso diretto di incostituzionalità, r. tarchi (a cura di), Giappichelli, Torino, 2008, pp. 397-398).

[71] Infatti, il potere risulta comunque concentrato negli organi di vertice, non essendo le elezioni libere, e soprattutto dipendendo ogni volta le scelte elettive e quelle politiche dal partito, cui è assicurato un ruolo istituzionale (in l. pegoraro, a. rinella, Sistemi costituzionali comparati, Giappichelli, Torino, 2017, p. 343).

[72] Il 25 marzo del 1957, in Campidoglio, i rappresentanti di Francia, Germania Ovest, Italia, Belgio, Olanda e Lussemburgo firmarono i trattati istitutivi della Comunità Economica Europea (CEE) e della Comunità Europea dell’Energia Atomica (CEEA, o EURATOM). Sono i ‘Trattati di Roma’, che – andandosi ad aggiungere alla Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA), già istituita nel 1951 – rappresentano lo storico atto di nascita della Comunità europea, poi trasformatasi nell’odierna Unione. Si tratta di tre organizzazioni, più o meno distinte tra loro, mediante le quali i Paesi membri si proponevano di integrare le rispettive economie al fine di perseguire i fini indicati all’art. 2 del Trattato della comunità europea, e cioè per “promuovere nell'insieme della Comunità, mediante l'instaurazione di un mercato comune e di un'unione economica e monetaria e mediante l'attuazione delle politiche e delle azioni comuni di cui agli articoli 3 e 4, uno sviluppo armonioso, equilibrato e sostenibile delle attività economiche, nell’insieme dei loro territori”, ma avendo come unico scopo generale quello di creare “un’unione sempre più stretta tra i popoli europei”,

[73] Si osservi che, il concetto di forma di governo è stato elaborato avendo come termine di riferimento lo Stato, sicché, volendolo utilizzare per cercare di delineare il tipo di rapporti intercorrenti tra le istituzioni che detengono i poteri decisionali, si deve procedere in un’ottica comparativa, tenendo conto del carattere “ibrido” dell’assetto dell’Unione (in e. de marco, Istituzioni in cammino: scritti di diritto costituzionale italiano ed europeo, Giuffré, Milano, 2010, p. 89).

[74] L’Unione europea si discosta dal modello di governo che ha egemonizzato il costituzionalismo europeo: quello parlamentare. Infatti, malgrado il rapporto tra Parlamento e Commissione possa assimilarsi, quantomeno virtualmente ad un rapporto di fiducia, è del tutto evidente che l’indirizzo politico dell’Unione non si esaurisce nella relazione tra questi due organi (in g. guzzetta, f. s. marini, Lineamenti di diritto pubblico italiano ed europeo, Giappichelli, Torino, 2014, p. 323).

[75] Il Compromesso di Lussemburgo introdusse l’obbligatorietà delle reciproche consultazioni tra Commissione e Consiglio per definire “di comune accordo le modalità della loro collaborazione”.

[76] Il Trattato di Maastricht, noto come “Trattato sull’Unione Europea”, rafforzò i settori di competenza e la sfera di azione della CE, assegnandole il compito di creare una moneta unica in sostituzione delle monete nazionali. Tale Trattato, altresì, istituì nuovi pilastri: la politica estera e di sicurezza comune (PESC) e la giustizia e gli affari interni (GAI).

[77] Tali modifiche hanno riguardato il Trattato sull’Unione Europea, che mantiene il proprio nome e il Trattato che istituisce la Comunità europea (TCE), che diventa il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE).

[78] In particolare, l’Alto Rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e di politica estera fungerà da collante tra la Commissione, il Consiglio e il Consiglio europeo; il Parlamento europeo e il Consiglio nomineranno un Comitato di sette personalità con il compito di fornire un parere sull’adeguatezza dei candidati alla funzione di giudice della Corte di giustizia dell’Unione Europea e del Tribunale; la rappresentanza esterna dell’Unione sarà di volta in volta garantita dall’Alto Rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e di politica estera, dalla Commissione e dal Consiglio europeo; il potere esecutivo continua ad essere esercitato, su impulso del Consiglio europeo, dalla Commissione e talvolta dai Consigli di settore; la Commissione promuove l’interesse generale e adotta iniziative appropriate, ma solo alla luce degli orientamenti e delle linee guida precedentemente stabilite dal Consiglio europeo (l. mezzetti, Le istituzioni e la forma di governo dell’Unione, in Lineamenti di Diritto costituzionale dell'Unione Europea, p. costanzo, l. mezzetti, a ruggeri, (a cura di), Giappichelli, Torino, 2014, p. 261).

[79] m. santangelo, La nobiltà di Seggio napoletana e il riuso politico dell’Antico tra Quattro e Cinquecento, FedOA Press, 2019, p. 256.

[80] A tal proposito, si ricordino le parole di Brutus, in una lettera indirizzata ai cittadini dello Stato di New York: “Non bisogna attendersi una forma di governo perfetta, così come non può esserci perfezione nell’uomo. Il vostro sguardo, allora, dovrebbe essere diretto ai pilastri che stanno alla base di un governo libero: se sono saldi e costruiti su fondamenta che ne sopportano il peso, dovreste esserne soddisfatti, sebbene all’edificio manchi qualche ornamento che voi, secondo i vostri gusti, avreste aggiunto; d’altra parte, se le fondamenta sono instabili o lasche, e viene così a mancare il sostegno principale, per quanto sia decorato e ornato l’edificio, dovreste rifiutarlo” (in a. giordano, l. m. bassani, Gli antifederalisti. I nemici della centralizzazione in America (1787-1788), IBL, Torino, 2011, p. 238).

[81] Lo stesso concetto di democrazia è in forte discussione. Esso, infatti ha subito nel tempo parecchie variazioni e interpretazioni. Ne è testimonianza il dibattito su quale sia la “migliore forma di democrazia” o, se lo preferiamo di democrazia di qualità (in m. la bella, Cultura istituzionale e strumenti di accountability: il contributo dell’Ombudsman alla qualità della democrazia, FrancoAngeli, Milano, 2012, p. 27).