Pubbl. Sab, 13 Feb 2016
Leggere i messaggi privati nel cellulare del partner può concorrere ad integrare il delitto di rapina
Modifica paginaLa suprema Corte di Cassazione, ribadendo alcuni dei fondamentali principi espressi dalla Corte di legittimità, ha affermato che Impossessarsi del cellulare del proprio partner con il fine di “perquisirlo” per leggere i messaggi integra il delitto di cui all’art. 628 c.p. Nota a Cass. Pen., Sez. 2, Sentenza n. 11467 del 10/03/2015 Ud. (dep. 19/03/2015 ) Rv. 263163.
Sommario: 1. Premessa – 2. Il Caso – 3.“Pillole” sul delitto di rapina – 4. La decisione – 5. Il principio di diritto
1. Premessa
Sarà capitato a chiunque, almeno una volta nella vita, di volere curiosare tra i messaggi del proprio partner per scoprire con chi parla, cosa scrive o per le più disparate ragioni. A maggior ragione in un periodo come questo, in cui i social network sembrano essere diventati gli “unici” strumenti di comunicazione, le relazioni sono messe a dura prova. Sia per sospetto, che per mera curiosità, si rischia infatti di scoprire delle “scomode” verità, o dei semplici fraintendimenti che inevitabilmente portano la coppia a litigare.
Dal punto di vista pratico, cosa accade se, ad esempio, il compagno, sottrae alla propria compagna il cellulare per leggere le conversazioni contenute nelle chat?
2. Il Caso
In un caso sottoposto recentemente all’attenzione della Suprema Corte, un uomo decise di impossessarsi del telefono cellulare della ex fidanzata al solo fine di far conoscere al padre di costei i messaggi che la stessa riceveva da un altro uomo.
Nel caso di specie, è bene precisarlo, l’uomo ha riconosciuto di aver agito per perseguire un'utilità di carattere morale (non patrimoniale), sottraendo il telefono cellulare alla ex fidanzata. Ciò che invece ha contestato per il tramite della sua difesa è il carattere "ingiusto" di tale utilità, osservando che la sua azione è stata finalizzata esclusivamente a dimostrare al padre della sua (ex) fidanzata, attraverso i messaggini telefonici, i tradimenti perpetrati dalla figlia, e, dunque, l'esistenza di una relazione con un altro uomo sicché il suo intento è stato quello non già di conseguire un profitto ingiusto, bensì di dimostrare al genitore della sua ragazza l'ingiustizia e la scorrettezza del comportamento tenuto dalla figlia.
Ebbene, con sentenza del 10 marzio 2015 n. 11467, la Suprema Corte di Cassazione ha stabilito che impossessarsi del telefonino altrui, leggendone i messaggi e la corrispondenza privata, qualifica l’ingiusto profitto morale idoneo a ritenere sussistente il delitto di rapina[1].
Ciò che la Corte ritiene possa essere violata è la libertà di autodeterminazione del partner che di per sé comporta la libertà tanto di intraprendere relazioni sentimentali quanto di porvi fine.
3. “Pillole” sul delitto di rapina
Per meglio comprendere i fondamenti logici posti alla base della decisione in commento, appare utile una breve ricostruzione del delitto di cui all’art. 628 c.p.
Commette tale delitto chiunque per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, mediante violenza alla persona o minaccia, si impossessa della cosa mobile altrui sottraendola a chi la detiene.
La fattispecie in questione è indicata come ipotesi classica di reato composto o complesso in senso stretto (art. 84 c.p.), che fonde in un’unica figura criminosa fatti costituenti reati autonomi: ossia il reato di cui agli articoli 624, 624 bis e 610 c.p..
Altri autori ritengono che le fattispecie unifichi in quella di furto quella di reato corrispondente al tipo di violenza fisica o psichica usata di volta in volta, dal momento che è già la rapina un’ipotesi speciale del genus violenza privata. Viene, infine, osservato che la rapina è reato solo eventualmente complesso o complesso in senso lato, appunto perché al furto si accompagna una violenza non necessariamente idonea, in sé stessa, ad integrare il reato di violenza privata, ma comunque diretta al perseguimento dei fini indicati dall’articolo 628 c.p..
Soggetto attivo può essere chiunque non abbia il possesso attuale della cosa, anche chi, avendo la mera detenzione temporanea del bene, eserciti violenza o minaccia per impossessarsi.
Il richiamo all’autorità della cosa induce parte della dottrina ad escludere che possa rispondere di rapina il proprietario il quale, nel caso di violenza o minaccia esercitata per conseguire il possesso della cosa, semmai risponde di violenza privata ex articolo 610 c.p., ovvero di esercizio arbitrario delle proprie ragioni ex articolo 393 c.p.. Comunque può essere autore del reato il comproprietario, poiché l’articolo 627 c.p. esaurisce la propria operatività nel furto. I vincoli di parentela o affinità e intercorrenti tra il soggetto attivo e passivo del reato non hanno influenza alcuna ai sensi dell’articolo 649 c.p. per le ipotesi di rapina consumata.
Oggetto materiale della condotta è la cosa mobile altrui[2]. Per la dottrina prevalente può definirsi altrui non solo una cosa che non sia di proprietà della gente; altra dottrina invece definisce tale anche la cosa mobile sulla quale una persona diversa dall’autore del reato abbia un diritto di godimento o di garanzia, con la conseguenza che può essere responsabile del delitto di rapina anche il proprietario della cosa posseduta da altri a titolo di diritto reale od obbligatorio. A questa tesi si obietta che l’articolo 627 c.p. punisce più lievemente il furto del comproprietario, socio, coerente; ed ancora nell’articolo 334 c.p. punisce con la pena lieve, che può essere solo pecuniaria, il proprietario che sottrae o distrugge una cosa propria sottoposta pignoramento sequestro: dunque l’espressione cosa altrui deve essere inteso in senso rigoroso, in modo tale da escludere la configurabilità del delitto di rapina per il proprietario[3]. La rapina è reato di danno, il carattere omissivo - salvo che non ricorra un’ipotesi di concorso di persone ai sensi dell’articolo 40 cpv.
Nella rapina propria, violenza o minaccia[4] precedono l’impossessamento al quale sono finalizzati, non sono contestuali adesso; possono essere esercitate anche contro una persona diversa dal detentore, purché l’effetto intimidatorio o coercitivo sia da quest’ultimo avvertito: si pensi al caso di violenza o minaccia esercitate nei confronti di terze persone che si oppongono alla sottrazione.
La violenza non deve necessariamente presentare particolare intensità, potendo anche consistere in una spinta o uno strattone, purché sortiscono l’effetto di coartare la libertà del soggetto passivo. Nel concetto di violenza personale rientra anche ogni attività insidiosa che, senza compromettere l’incolumità, pone soggetto passivo nell’impossibilità di volere o di agire, come ad esempio nella narcotizzazione, ipnosi o somministrazione di sostanze stupefacenti.
La consumazione si verifica non appena l’agente si impossessa della cosa, ovverosia quando la cosa sottratta passa nella esclusiva detenzione e nella sua disponibilità, con conseguente privazione per la vittima del relativo potere di vigilanza sul bene.
L’impossessamento comporta un primo momento dell’iter criminis consistente nella sottrazione della cosa a chi la detiene, che comporta lo spoglio e con esso l’eliminazione del possesso in capo al possessore dissenziente, ma si compie con l’instaurazione di un autonomo potere di disposizione sulla res.
Si precisa che il delitto si perfeziona nel momento e nel luogo dell’impossessamento, e si consuma quando raggiunge la massima concreta gravità, momenti che possono non coincidere, giacché l’impossessamento può seguire immediatamente la sottrazione, ma può anche realizzarsi in un momento successivo, come nel caso di cosa sottratta al possessore ma recuperata dalla gente, in un secondo momento, in una sfera di diretto controllo.
Per la sussistenza del tentativo[5] è sufficiente che l’attività dell’agente sia potenzialmente idonea a produrre lo spossessamento, non conseguito, della cosa mobile altrui mediante violenza o minaccia che la direzione univoca degli atti rende manifesta la volontà di conseguire l’intento criminoso. Si versa sempre in ipotesi di tentativo, e non di reato impossibile, dando la mancata realizzazione sia comunque dovuta ad un fattore estraneo ai mezzi impiegati in sé idonei ed all’azione del colpevole, come nel caso di un dispositivo antirapina presso la banca ai cui danni la condotta era diretta.
Il dolo, richiede con la coscienza è volontà di impossessarsi della cosa mobile altrui con violenza alla persona o minaccia, anche il fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, che non è necessario venga effettivamente conseguito (dolo specifico).
Il profitto[6], di rapina consiste in un’utilità economica, tuttavia, secondo una tesi sostenuta con riguardo a tutti i reati contro il patrimonio, può consistere in qualsiasi utilità, anche solo morale sentimentale, o in qualsiasi vantaggio con soddisfazione che la gente si ripromette di trarre per sé o per altri anche non immediatamente all’azione violenta; tale concezione si obietta di essere condizionata di malintese ragioni di prevenzione generale.
Il profitto deve essere ingiusto, dunque, non deve ricevere tutela diretta o indiretta dall’ordinamento giuridico, pertanto, se il soggetto agisce allo scopo di realizzare una pretesa comunque tutelata dal diritto non si versa in ipotesi di rapina, ma può essere integrata, per il ricorso strumentale alla violenza o alla minaccia, altre ipotesi delittuosa, come ad esempio la violenza privata di cui all’articolo 610 c.p.
4. La decisione
Con la sentenza in commento, la Suprema Corte di Cassazione ha stabilito che impossessarsi del telefonino altrui, leggendone i messaggi e la corrispondenza privata, qualifica il reato di ingiusto profitto morale e delitto di rapina[7].
Secondo la Corte, infatti, nel delitto di rapina il profitto può concretarsi in ogni utilità, anche solo morale, nonché in qualsiasi soddisfazione o godimento che l'agente si riprometta di ritrarre, anche non immediatamente, dalla propria azione, purché questa sia attuata impossessandosi con violenza o minaccia della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene.
Già in passato[8], la Suprema Corte, aveva affermato ad esempio che il fine di ottenere "un bacio" in cambio della restituzione di un monile sottratto integrasse l'utilità, anche solo morale, che qualifica il dolo specifico del reato di rapina[9].
Nel caso di specie, come sopra evidenziato, l’uomo ha riconosciuto di aver agito per perseguire un'utilità di carattere morale (non patrimoniale), sottraendo il telefono cellulare alla ex fidanzata.
Ciò che invece ha contestato per il tramite della sua difesa è il carattere "ingiusto" di tale utilità, osservando che la sua azione è stata finalizzata esclusivamente a dimostrare al padre della sua (ex) fidanzata, attraverso i messaggini telefonici, i tradimenti perpetrati dalla figlia, e, dunque, l'esistenza di una relazione con un altro uomo sicché il suo intento è stato quello non già di conseguire un profitto ingiusto, bensì di dimostrare al genitore della sua ragazza l'ingiustizia e la scorrettezza del comportamento tenuto dalla figlia.
A parere della Suprema Corte, proprio tale riconosciuta finalità è idonea ad integrare pienamente il requisito dell'ingiustizia del profitto morale che l'agente voleva ricavare dall'impossessamento del telefono cellulare della sua ex fidanzata.
L'instaurazione di una relazione sentimentale fra due persone appartiene alla sfera della libertà e rientra nel diritto inviolabile all'autodeterminazione fondato sull'art. 2 della Costituzione, dal momento che non può darsi una piena ed effettiva garanzia dei diritti inviolabili dell'uomo (e della donna) senza che sia rispettata la sua libertà di autodeterminazione. Tale libertà, nella sfera sessuale, comporta la libertà di intraprendere relazioni sentimentali e di porvi termine.
Nel caso di specie, sostiene il Collegio, la pretesa dell'agente di "perquisire" il telefono della ex fidanzata alla ricerca di messaggi ‐ dal suo punto di vista ‐ compromettenti, assume i caratteri dell'ingiustizia manifesta proprio perché, violando il diritto alla riservatezza, tende a comprimere la libertà di autodeterminazione della donna e si pone in prosecuzione ideale con il reato di tentata violenza privata, avente ad oggetto il tentativo dell’uomo di costringere la sua ex fidanzata a riallacciare il rapporto di fidanzamento dalla stessa troncato. Non può dubitarsi, pertanto, del requisito dell'ingiustizia del profitto (solo morale) perseguito dall'agente mediante l'impossessamento del telefono della sua ex fidanzata.
5. Il principio di diritto
Alla luce di tali considerazioni la Suprema Corte ha quindi affermato che nel delitto di rapina sussiste l'ingiustizia del profitto quando l'agente, impossessandosi della cosa altrui (nella specie un telefono cellulare), persegua esclusivamente un'utilità morale, consistente nel prendere cognizione dei messaggi che la persona offesa abbia ricevuto da altro soggetto, trattandosi di finalità antigiuridica in quanto, violando il diritto alla riservatezza, incide sul bene primario dell'autodeterminazione della persona nella sfera delle relazioni umane.
La Suprema Corte, seppur in un caso certamente particolare, non ha fatto altro che applicare principi pienamente consolidati in ambito giurisprudenziale.
Già da parecchi anni non è più contestato infatti il principio per il quale il profitto, oggetto del dolo specifico, può concretarsi in qualsiasi utilità, anche solo morale, in qualsiasi soddisfazione o godimento che l'agente si riprometta di ritrarre, anche non immediatamente, dalla propria azione. Né è contestata la circostanza per la quale, per la configurabilità del reato, è sufficiente che il colpevole abbia operato per il soddisfacimento di qualsiasi fine o bisogno, anche di carattere psichico, e quindi pure per uno scopo di ritorsione o di vendetta.
Ecco che, stante tali consolidati principi, ed alla luce della tutela del diritto alla riservatezza e all’autodeterminazione, la Corte non sarebbe potuta addivenire ad una conclusione differente.
[1] Cass. Pen., Sez. 2, Sentenza n. 11467 del 10/03/2015 Ud. (dep. 19/03/2015 ) Rv. 263163, in Foro Italiano, 2015, 4, 205.
[2] Cass. Pen., Sez. 2, Sentenza n. 2542 del 16/10/2014 Ud. (dep. 21/01/2015 ) Rv. 261854, in www.italgiure.it..
[3] Per un approfondimento in tema di “res nullius” Cfr. Cass. Pen., Sez. 2, Sentenza n. 1426 del 14/12/2012 Ud. (dep. 11/01/2013 ) Rv. 254128, in www.italgiure.it.
[4] Cfr. Cass. Pen. Sez. Un., Sentenza n. 34952 del 19/04/2012 Cc. (dep. 12/09/2012 ) Rv. 253153, in www.italgiure.it, per una differenza tra rapina propria e rapina impropria.
[5] Tra le più recenti in tema di concorso in tentata rapina Cfr. Cass. Pen., Sez. 2, Sentenza n. 40912 del 24/09/2015 Cc. (dep. 12/10/2015 ) Rv. 264589, in www.italgiure.it.
[6] Cass. Pen., Sez. 2, Sentenza n. 12800 del 06/03/2009 Ud. (dep. 23/03/2009 ) Rv. 243953, in www.italgiure.it.
[7] Cass. Pen., Sez. 2, Sentenza n. 11467 cit.
[8] Cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 7778 del 14/02/1990 Ud. (dep. 31/05/1990) Rv. 184507; Sez. 2, Sentenza n. 12800 del 06/03/2009 Ud. (dep. 23/03/2009) Rv. 243953, in www.italgiure.it.
[9] Cass. Pen., Sez. 2, Sentenza n. 49265 del 07/12/2012 Ud. (dep. 19/12/2012 ) Rv. 253848, in www.italgiure.it.