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Pubbl. Gio, 26 Gen 2023

La Convenzione di Vienna: scopo, storia e ambito di applicazione della disciplina uniforme

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Marco Taffarello
Praticante AvvocatoUniversità degli Studi di Torino



La Convenzione sui contratti per la vendita internazionale di beni mobili (Convention on Contracts for the International Sale of Goods - CISG) è un trattato internazionale adottato nell´ambito delle Nazioni Unite per disciplinare i contratti di vendita di beni mobili stipulati da parti che risiedono in Stati diversi. Quando il Trattato CISG trova applicazione, la vendita resta refrattaria ai diritti nazionali dell’una e dell’altra parte ma ricade sotto una legge materiale uniforme. Questo dilagare del Trattato CISG se da un lato ha contribuito all’erezione di un ordinamento autonomo del commercio transfrontaliero, dall´altro ha dato vita a numerosi dubbi circa il suo ambito di applicazione.


ENG

The Vienna Convention: scope, history, and application of the uniform discipline

The Convention on Contracts for the International Sale of Goods (CISG) is an international treaty adopted within of the United Nations to govern contracts for the sale of movable property entered into by parties residing in different states. When the CISG treaty finds application, the sale remains refractory to the domestic rights of either party but falls under a uniform substantive law. While this proliferation of the CISG treaty has contributed to the erection of an autonomous order of cross-border trade, it has also given rise to numerous doubts about its sphere of application.

Sommario: 1. La CISG come legislazione uniforme della vendita internazionale; 2. Cenni storici; 3. Ambito di applicazione; 4. Ambito di applicazione ratio materiae; 5. Ambito di applicazione territoriale; 6. Ambito di applicazione soggettivo.

1. La CISG come legislazione uniforme della vendita internazionale.

Dalla metà del secolo scorso, anche e soprattutto grazie alla globalizzazione, gli scambi commerciali internazionali sono aumentati a dismisura, raggiungendo un’intensità senza precedenti. Il commercio ha così sviluppato una dimensione che va ben oltre i confini del singolo Stato o comunità di Stati (ad esempio, l’Unione Europea, l’Unione doganale africana o la Convenzione di libero mercato Sudamericana). 

L’istituto che maggiormente disciplina le vendite e, pertanto, anche gli scambi di merce a livello internazionale, è il contratto. Ma, mentre il commercio ha avuto una forte espansione transfrontaliera, il contratto di compravendita, per molti anni, ha trovato una propria regolamentazione esclusivamente – se si tralasciano le regole pattizie poste dalle parti - all’interno dei diversi ordinamenti giuridici nazionali, i quali ovviamente dettano regole che differiscono anche notevolmente l’una dall’altra [1]

Pertanto, quando le parti non raggiungano un accordo esaustivo su tutte le materie della contrattazione, è più che logico chiedersi come debba risolversi il problema della vendita transfrontaliera, o meglio, a quale legge deve ritenersi sottoposta una vendita quando vengono in gioco parti contraenti che hanno sede in Stati diversi. Muovendo da tale premessa, si capisce con facilità l’esigenza di creare una disciplina sovrastatuale per la regolamentazione del contratto di compravendita, capace di superare le barriere fisiche e politiche, nonché le differenze legate alle diverse norme nazionali, che costituiscono da sempre un grande ostacolo per gli scambi commerciali tra contraenti di Paesi diversi[2]

L’obiettivo è un sistema internazionalmente uniforme del contratto di compravendita capace di assicurare un regime ordinato e sicuro, così da facilitare le transazioni su scala internazionale[3]. La Convenzione sui contratti per la vendita internazionale di beni mobili del 1980 (CISG, acronimo della denominazione in lingua inglese, o anche Convenzione di Vienna) è, in tale ottica, un significativo strumento nella costruzione di un regime sovrastatuale della vendita[4]. Quando il trattato CISG trova applicazione, la vendita non dipende dai diritti nazionali dell’una o dell’altra parte ma ricade sotto una legge materiale uniforme[5]

Tale normativa convenzionale viene a sostituire il disordine causato da una moltitudine di leggi diverse. Regole uniche, sviluppate e accettate a livello internazionale, le quali consentono un’armonizzazione e uniformazione della disciplina della vendita transfrontaliera. Oltre a risolvere i problemi creati dall’incertezza a causa della babele di normative diverse in tema di vendita, la CISG ha anche il pregio di guardare alla neutralità.

Uno dei freni al commercio internazionale è stato spesso causato dalla diffidenza e mancata conoscenza del diritto straniero. Una regolamentazione che si discosta dalle disposizioni dettate dall’uno o dall’altro ordinamento e crea, invece, un ordinamento autonomo del commercio internazionale, ha il forte vantaggio di costruire una disciplina neutra. La CISG è stata ratificata ed è attualmente in vigore in 95 Stati (con la significativa eccezione del Regno Unito)[6]

L’accettazione delle regole dettate dalla Convenzione da parte di Paesi aventi sistemi giuridici, lingue, culture e situazioni economiche diverse – tra cui Paesi industrializzati ed altri in via di sviluppo – riflette un consenso globale sui principi giuridici relativi alla vendita internazionale di beni, un salto di qualità nell’uniformità delle norme giuridiche che regolano i contratti di vendita, con notevoli vantaggi per il commercio transfrontaliero[7]

L’obiettivo della diversità è stato raggiunto, ci sembra, con successo: Paesi di common law, di civil law, di tradizione socialista e islamica, nonostante le grandi differenze, applicano indistintamente la CISG. Ed è proprio questa eterogeneità di partecipazione alla stesura del trattato a rappresentare una tappa significativa nell’ambito dell’armonizzazione del diritto. Questo aspetto non può trascurarsi, ed anzi merita una certa attenzione.

In passato, l’esclusione di Paesi ancora in via di sviluppo dal processo decisionale aveva provocato un forte disincentivo nell’accettare le regole deliberate, per così dire, “da altri” (ci si riferisce in particolare alle Convenzioni dell’Aja: LUVI e LUFC).

È chiaro che, uno Stato, sarà tanto più incentivato ad accogliere una nuova normativa, che in pratica va a sostituire il proprio diritto nazionale, quanto più abbia avuto voce nella stesura di questa. Così è accaduto che anche Paesi in via di sviluppo hanno dapprima partecipato ai lavori di stesura della Convenzione, assicurando così diverse prospettive in materia – facendo ad esempio valere le ragioni di un Paese importatore di manufatti ed esportatore di materie prime – e successivamente ratificato e reso esecutiva la Convenzione[8]

Se da un lato questa eterogeneità ha avuto gli effetti positivi descritti, dall’altro, ha comportato maggiori difficoltà nel trovare regole comuni per raggiungere l’uniformità normativa ed è stata la causa di inevitabili soluzioni di compromesso, che talvolta hanno dato vita ad una molteplicità di regole flessibili contenti termini non sufficientemente definiti (cd. clausole generali) e altre volte hanno comportato la nascita di lacune interne – ossia materie che ricadono si nell’ambito della CISG, ma non sono da questa espressamente regolate. 

Quanto premesso lascia intuire perché la Convenzione necessiti dell’apporto giurisprudenziale. Un ampio spazio nella concretizzazione delle clausole generali è lasciato all’integrazione da parte della giurisprudenza nazionale. Allo stesso modo i giudici sono chiamati ad estrarre dai principi del testo convenzionale regole utili al fine di colmare le diverse lacune interne. Nel prestare il loro apporto i giudici sono chiamati ad un lavoro di uniformità interpretativa sovrastatuale, liberandosi dai concetti dei propri ordinamenti giuridici nazionali, come d’altronde richiede l’articolo 7, comma 1 CISG. Nel foro pur sempre nazionale, è necessario che i giudici adottino letture del testo convenzionale internazionalmente orientate, e la via principale è recepire e ripercorrere precedenti giurisprudenziali che, nei vari sistemi, abbiano già compiuto l’azione di contrasto all’homeword trend[9]

Benché talvolta questo risultato sia stato raggiunto, altre volte le inflessioni domestiche sono state forti al punto di influenzare le decisioni dei tribunali. Bisogna infatti sempre considerare la formazione dei giudici, i quali hanno imparato ad approcciarsi al diritto sulla base del proprio diritto domestico, e questi insegnamenti non sono sempre facilmente trasferibili. Il destino dell’uniformità della Convenzione, pertanto, dipende spesso dal foro adito per le controversie ed in questi casi è alto il rischio di una distorsione domestica (cd. homeward trend). 

2. Cenni storici

La Convenzione sui contratti per la vendita internazionale di beni mobili del 1980 (CISG) è il risultato di un lungo e difficile processo di unificazione delle leggi sostanziali che regolano i contratti di vendita, iniziato sin dalla fine degli anni ’20 del secolo scorso.

Quest’armonizzazione fu inizialmente perseguita dall’Istituto internazionale per l’unificazione del diritto privato (UNIDROIT), a cui fece seguito, dopo l’interruzione dei lavori a causa della II Guerra Mondiale, la Conferenza dell’Aja per il diritto internazionale privato, per concludersi infine sotto la guida della Commissione delle Nazioni Unite per il diritto commercio internazionale (UNCITRAL).Ripercorrendo ora la strada che ha portato alla redazione della Convenzione di Vienna, è d’uopo partire da Ernst Rabel. 

L’idea di unificare ed armonizzare il diritto dei contratti di vendita internazionali è infatti indissolubilmente legata ai suoi studi. Rabel è ricordato non solo per aver preparato le basi per uno studio comparato nel suo “Das Recht des Warenkaufs eine rechtsvergleichende Darstellung[10], ma anche per il forte contributo dato nell’avviare il processo di armonizzazione mondiale del diritto delle vendite. I lavori per questo ambizioso progetto iniziarono nel 1929, quando il neocostituito Istituto internazionale per l’unificazione del diritto privato, cd. UNIDROIT, decise, su proposta di Ernst Rabel, di assegnare uno dei suoi primi programmi di studio a questo proposito, istituendo una commissione incaricata dell’elaborazione di una legge sostanziale uniforme per le vendite internazionali. Commissione presieduta da Sir Cecil Hurst, e composta da Ernst Rabel, Algot Bagge, Henri Capitant, Martin Fehr, H. C. Guttridge e Josef Hamel. Tra il 1930 e il 1934 tale commissione si riunì undici volte e nel 1934 presentò finalmente una prima bozza del progetto, cui face poi seguito anche una seconda bozza, presentata alla vigilia della guerra. Lo scoppio delle ostilità interruppe però il lavoro che coinvolgeva i cittadini delle parti in conflitto.

A seguito della conclusione della guerra, fu ancora una volta Ernst Rabel, nel frattempo emigrato ad Ann Arbor (Stati Uniti), che nel 1950 si adoperò per stimolare la ripresa dei lavori ormai fermi da anni[11]. Nel 1951 il governo dei Paesi Bassi convocò una conferenza internazionale all’Aja dove veniva presentato il testo di Ernst Rabel “Das Recht des Warenkaufs eine rechtsvergleichende Darstellung” e nominata una nuova commissione che si occupasse del tema dell’armonizzazione della vendita internazionale.

Tale commissione produsse due bozze che furono generalmente ben accolte dalle autorità interessate e nel 1964 una nuova conferenza diplomatica convocata all’Aia approvò finalmente due convenzioni uniformi: una relativa alla legge uniforme sulla vendita internazionale di beni mobili corporali (LUVI) e l’altra alla legge uniforme sulla formazione di contratti di vendita internazionale di cose mobili materiali (LUFC). Entrambe le Convenzioni sono infine entrate in vigore il 18 agosto 1972. Tuttavia, non sono riuscite ad ottenere il successo tanto ambito, ed anzi, si sono rilevate in conclusione infruttuose. Solo nove Paesi (per la maggior parte europei)[12] le hanno ratificate, troppo pochi per trovare un generale riconoscimento ed un’ampia applicazione nell’ambito del commercio internazionale. 

Questo insuccesso può spiegarsi se si pensa alle molte critiche che sono state sollevate contro le due convenzionali dell’Aja. Una prima obiezione è rivolta al processo che ha portato alla loro redazione, considerato parziale e isolato, a cui la maggior parte degli Stati del mondo non era nemmeno presente.

Alla redazione delle Convenzioni dell’Aja hanno infatti preso parte prevalentemente i Paesi dell’Europa occidentale (ne facevano parte 19 dei 28 Stati partecipanti), pertanto, si può ben capire come queste riflettessero in via prevalente – se non esclusiva - il diritto e gli istituti giuridici di tale ambiente politico e territoriale. Gli altri Paesi non hanno trovato un’adeguata rappresentanza nella stesura dei testi uniformi sulle vendite internazionali e questo ha naturalmente comportato gravi dubbi nella loro accettazione.

I trattati redatti all’Aja non sono stati infatti ratificati da nessun Paese socialista e solo da uno in via di sviluppo[13]. Una seconda critica a questi testi è stata rivolta contro l’ambito di applicazione di tali convenzioni, ritenuto troppo penetrante ed imperativo. I redattori di queste, nel caso di vendite internazionali, hanno cercato di eliminare in radice l’applicazione del diritto nazionale delle vendite. Soffermandoci sul loro testo, entrambe prevedevano: “rules of private international law shall be excluded for the purpose of the applications of the present law”. Questo sul presupposto che la regolamentazione appositamente studiata e redatta per le transazioni internazionali di merci, fosse superiore alle diverse legislazioni nazionali[14]

Una così forte esclusione del proprio diritto patrio – a maggior ragione se si tratta di Paesi i quali non hanno avuto alcuna voce nel processo redazionale – non poteva certamente essere vista di buon occhio. Mentre il processo di ratifica di LUVI e LUFC era ancora pendente, un nuovo attore è intervenuto nel campo dell’armonizzazione internazionale del diritto commerciale: la Commissione delle Nazioni Unite sul diritto commerciale internazionale (UNCITRAL), istituita nel 1966.  Di fronte al fallimento delle precedenti convenzioni, l’UNCITRAL, dopo aver consultato gli Stati membri delle Nazioni Unite circa le loro osservazioni su queste e la possibilità di una loro ratifica, riscontrando per lo più pareri negativi, incluse nel suo programma di lavoro, nel 1968, l’istituzione di una nuova commissione per la ripresa degli studi al fine di revisionare le Convenzioni precedenti o di produrre un nuovo testo che avrebbe avuto maggiori possibilità di essere accettato e divenire così uno strumento utile a livello mondiale. 

Per dieci anni intese discussioni si sono succedute in un gruppo di lavoro composto di noti avvocati, delegati da 14, poi divenuti 15 Stati, i quali riflettevano la distribuzione dei Paesi all’interno di UNCITRAL. Una bozza finale (cd. bozza di New York) che riuniva i temi delle due leggi uniformi in un unico testo è stata presentata in una conferenza diplomatica convocata a Vienna nella primavera del 1980, in cui erano rappresentati 62 Governi. 

Dopo molte discussioni e diverse modifiche alla bozza di New York, la conferenza adottò finalmente, con 42 approvazioni e 9 astensioni, la Convenzione delle Nazioni unite del 1980 sui contratti per la vendita internale di merci (CISG). La CISG è entrata in vigore il 16 gennaio 1988 con le prime dodici ratifiche e da allora il numero degli Stati contraenti è cresciuto costantemente[15].

3. Ambito di applicazione

Le regole unificate della Convenzione di Vienna, a patto che le parti non le escludano ai sensi dell’articolo 6 CISG, sostituiscono le regole nazionali in materia di vendita internazionale. Tuttavia questa non si applica a tutti i contratti di vendita transfrontaliera, ma è limitata ad un certo gruppo di vendite. Le norme domestiche restano allora in vigore e possono produrre i propri effetti per tutte le operazioni e le questioni non rientranti nell’ambito di applicazione della CISG. Per tale motivo è importante capire il campo in cui il testo convenzionale trova applicazione e quello viceversa rimesso al diritto degli ordinamenti domestici.

Possiamo dire sin d’ora che la Convenzione di Vienna si applica esclusivamente alle transazioni internazionali, disciplina solo le vendite commerciali (cd. business to business) e non si applica a determinati tipi di contratti ed a certi tipi di beni[16].

4. Ambito di applicazione ratio materiae

Partendo dall’ambito materiale della Convenzione di Vienna la prima norma su cui bisogna porre l’attenzione è l’articolo 1, c. 1, prima parte, CISG[17], la quale fa riferimento ai contratti (internazionali) di vendita di beni mobili. Analizzando tale norma, si può notare la mancanza di una definizione del termine “contract of sale”. Ciò premesso, la nozione di contratto di compravendita non deve essere lasciata alla mercé dei diversi ordinamenti nazionali, ma ne deve comunque essere dato un significato autonomo ai sensi della Convenzione[18]. Questo risultato è stato ritenuto possibile poggiando l’interpretazione sugli articoli 30 e 53 CISG in tema di obblighi delle parti.

Sulla base di queste norme, il contratto di compravendita è inteso come quell’accordo che vede il venditore obbligato a consegnare i beni e trasferirne la proprietà, mentre il compratore si assume l’obbligo di pagarne il prezzo e prenderli in consegna[19]. In alcuni casi sarà facile riconoscere quando un contratto di vendita è rientrante nell’ambito di applicazione della Convenzione di Vienna, esistono però alcune tipologie di negozi, la cui classificazione può creare più difficoltà. 

Innanzitutto, i contratti disciplinati dalla CISG non sono esclusivamente quelli che si concludono a seguito di una vendita isolata. L’articolo 73 CISG prende infatti in considerazione le vicende a seguito dell’inadempimento di una parte nei contratti a consegne successive. In virtù di tale norma si evince come la Convenzione sia applicabile anche ai contratti di somministrazione. Inoltre, devono ritenersi rientrare nella sfera di applicazione della CISG anche i contratti di vendita su campione e i contratti di vendita a prova[20]. Fino a questo momento abbiamo trattato esclusivamente di negozi i quali hanno come oggetto esclusivo il trasferimento di beni.

La Convenzione però amplia il suo ambito di applicazione materiale, disciplinando, a determinate condizioni, contratti i quali presuppongo ulteriori prestazioni. L’articolo 3, comma 1 CISG[21] assimila alla vendita i contratti di fornitura di beni da fabbricare o produrre, che sottopone pertanto al regime uniforme. Restano però esclusi i contratti nei quali la parte che ordina i beni fornisce una parte sostanziale dei materiali necessari alla loro produzione. Da questo si capisce come la CISG non trova applicazione limitatamente a prodotti finiti, ma estende i suoi effetti anche a contratti in virtù dei quali il venditore deve produrre il bene, ma solo nel caso in cui il materiale necessario a tale lavorazione sia in parte sostanziale a carico dello stesso. 

L’articolo 3, comma 2 CISG[22] riguarda invece i negozi che non si limitano alla vendita di un bene, ma che includono elementi ulteriori, nello specifico la prestazione di manodopera o di altri servizi. Anche in questo caso la norma amplia l’ambito operativo della CISG oltre alle mere vendite, ma a condizione che questi elementi ulteriori non rappresentino la parte preponderante del contratto. Queste norme, seppur da accogliere positivamente per aver ampliato l’operatività della disciplina uniforme ad un settore (quello dei servizi) in forte espansione, hanno anche causato, data la loro formulazione elastica, seri dubbi interpretativi.

Analizzando il primo comma dell’articolo 3 si evince che la Convenzione di Vienna regola i contratti di fornitura di beni da fabbricare o produrre solo se il compratore non fornisce parte sostanziale del materiale necessario per la produzione. A questo riguardo due sono le problematiche, in primis si deve stabilire cosa si intenda per “materiali necessari per la produzione” e, in secondo luogo, serve determinare con più precisione a cosa corrisponda questa “parte sostanziale”.

Riguardo la prima questione, questa è generalmente risolta prendendo in considerazione le sole materie prime necessarie alla produzione vera e propria del bene, mentre non si considerano gli elementi accessori (es. il materiale per l’imballaggio delle merci)[23]. La seconda questione non è così facilmente risolvibile ed anzi possono tuttora riscontrarsi in dottrina e giurisprudenza opinioni contrastanti. Per cercare di dare risposte alla genericità lasciata dalla Convenzione, sono stati infatti suggeriti criteri diversi, tra cui il valore economico del contributo, il suo volume e ancora la sua importanza rispetto al prodotto finale. 

L’approccio portato avanti dal presente autore è quello di ritenere che l’applicazione dell’articolo 3, comma 1, dipenderà da un’analisi caso per caso, considerando non un solo elemento, ma tutti i criteri su menzionati. Non si dovrebbe quindi cercare di costruire una risposta basata su una linea dura, invariabile alla luce delle diverse circostanze, ma anzi, le corti sarebbero tenute a soppesare tutti i fattori rilevanti. Per quanto riguarda il secondo comma dell’articolo 3, anche in questo caso si pongono dubbi sul significato di “parte preponderante”, riferita agli obblighi del venditore. 

A differenza di quanto affermato per la soluzione del problema riguardo al primo comma, il mero criterio quantitativo sembra qui ottimale per determinare quando un servizio sia da intendersi parte sostanziale all’interno del contratto. Questo significa che i giudici dovranno condurre una mera operazione aritmetica, comparando il prezzo di vendita dei beni con il prezzo del lavoro o dei servizi, come se fossero stati conclusi due contratti distinti[24]

Questa differenza di soluzioni deriva dal fatto che qualora si tratti di fornire parte dei materiali per la realizzazione di un prodotto, date le molteplici variabili da prendere in considerazione – tra cui, oltre alla quantità e al valore dei materiali, anche il grado di importanza rispetto al prodotto finale - non ci si può riferire esclusivamente al mero valore nominale dell’apporto, ma sarà necessaria un’analisi più approfondita. Sembra invece più corretto nella seconda ipotesi separare idealmente la vendita dalla prestazione di un servizio, attribuendo ad ognuno il loro proprio valore, come se si trattasse di due prestazioni indipendenti l’una dall’altra. 

Entrambe le questioni sono state esaminate dall’ Oberster Gerichtshof[25], che ha escluso l’applicabilità della Convenzione sia in quanto il soggetto che commissionava i beni aveva fornito le materie prime necessarie per la produzione (articolo 3, comma 1 CISG), sia perché l’attività di trasformazione costituiva parte preponderante delle obbligazioni assunte dal soggetto incaricato di fornire i beni (articolo 3, comma 2 CISG). Va poi notato che la stessa nozione di “goods” necessita di essere concretizzata, in quanto la Convenzione – allo stesso modo che per il concetto di “contract of sale” – non si presta a determinarne il significato. Dottrina e giurisprudenza sembrano concordi nel ritenere che questo vado inteso nel senso di beni mobili corporali (a titolo esemplificativo le decisioni giudiziarie hanno ritenuto applicabile la CISG a vendite di macchinari, beni alimentari, vestiti e persino animali)[26]

La qualifica di bene “mobile”, seppur essenziale per sottoporre una vendita alla disciplina uniforme della Convenzione, non deve necessariamente ricorrere sin dalla conclusione del contratto, ma può venire ad essere sino al momento della consegna del bene (si pensi in questo senso ad un contratto con il quale una parte vende una determinata quantità di cereali, i quali, al momento della stipulazione dell’accordo sono ancora incorporati nel terreno). Sempre con riferimento all’ambito materiale di applicabilità della Convenzione di Vienna, va considerato che l’articolo 2 della CISG[27] esclude espressamente dal suo campo di applicazione alcune tipologie di vendite ed alcune tipologie beni.

5. Ambito di applicazione territoriale

Con riferimento all' ambito di applicazione territoriale della Convenzione di Vienna bisogna innanzitutto precisa che la disciplina uniforme non si applica indistintamente a qualsiasi contratto di compravendita che rispetti i soli requisiti materiali.  L’ambito di applicazione della CISG è ulteriormente limitato alle compravendite che soddisfano precisi requisiti di internazionalità.

L’articolo 1, comma 1, CISG serve allo scopo di isolare l’internazionalità rilevante ai fini dell’applicazione della Convenzione, richiedendo che i contratti siano conclusi tra parti i cui “place of business” (che in italiano si potrebbe tradurre come “sede di affari”), si trovino in due Stati differenti[28]

Tuttavia, il solo requisito dell’internazionalità non è sufficiente, la stessa norma esige un qualcosa di più. Proseguendo nella lettura dell’articolo si scopre quindi come sia richiesto, alternativamente, che: a) il place of business della parte sia collocato all’interno di uno Stato contraente la Convenzione, o b) che le norme di diritto internazionale privato portino all’applicazione della legge di uno Stato contraente. Si parla nel primo caso di applicazione diretta della disciplina uniforme, e di applicazione indiretta nel secondo caso. Con riferimento al criterio previsto dall’articolo 1, comma 1, lett. a)[29], è sufficiente il solo fatto che le parti contrattuali abbiano il loro “place of business” in Stati contraenti diversi. La Convenzione, pertanto, non si applica nel caso in cui le parti abbiano il proprio “place of business” nello stesso Stato. Nessun rilievo viene invece dato al luogo in cui le merci si trovano nel momento in cui il contratto viene perfezionato, né al fatto che questo dà vita ad un trasferimento di beni da un Paese ad un altro. Così come nessuna importanza è data al luogo in cui i negoziati, la formazione o l’esecuzione del contratto avvengano[30]

L’articolo 10, lett. a) CISG[31], al fine di evitare ulteriori contrasti e cercando di chiarire le situazioni da cui deriva l’applicazione della Convenzione, prende in considerazione il caso in cui una o entrambe le parti abbiano più “place of business”. La questione che va risolta è quella di determinare quale il place of business da prendere in considerazione al fine di stabilire se l’accordo concluso tra le parti possa essere o meno considerato internazionale. Si può pensare in questo senso ad una grossa azienda, la quale abbia una sede centrale e più sedi periferiche dislocate in diversi Paesi del mondo. In questo caso il place of business non viene individuato a priori nella sede centrale, ma nemmeno è lasciato alla libera scelta della parte.

La norma chiarisce che bisogna guardare alla sede di attività che ha un più stretto rapporto con il contratto e con la sua esecuzione[32]. La disciplina uniforme della Convenzione può poi trovare applicazione, ai sensi dell’articolo 1, comma 1, lett. b)[33], anche se il place of business di una o entrambe le parti sia estraneo al territorio di uno Stato contraente, ma solo attraverso le norme di diritto internazionale privato del foro, le quali conducano all’applicazione del diritto di un Paese ratificante la Convenzione. In tal caso, la disciplina uniforme troverà applicazione come parte del diritto nazionale dello Stato contraente, in particolare come lex specilis in relazione alle vendite internazionali di beni mobili[34]. Ciò non solo nel caso in cui il giudice adito sia quello di un Paese firmatario, ma anche quando la controversia si trovi radicata presso il foro di uno Stato non contraente. Va però notato che il criterio di applicazione indiretto non opera quando sussiste una riserva ai sensi dell’articolo 95 CISG, che consente a qualsiasi Stato contraente di escludere l’operatività dell’articolo 1, comma 1, lett. b) CISG. 

Tale articolo nasce dalle critiche che furono sollevate in sede di redazione della Convenzione in merito alla possibilità di estendere il campo applicativo della CISG anche a Stati non contraenti attraverso l’applicazione del diritto internazionale privato. In particolare, i dissensi provenivano prevalentemente da alcuni Paesi socialisti, i quali sostenevano che tale meccanismo avrebbe penalizzato quei Paesi che avevano avuto cura di introdurre nel proprio ordinamento nazionale una normativa specifica rivolta al commercio transfrontaliero e che, pertanto, non avevano accettato di ratificare il testo convenzionale. Uno Stato riservatario segnala che vuole essere vincolato all’applicazione della CISG sulla sola base dell’articolo 1 lett. a), pertanto, questa troverà applicazione esclusivamente nel caso in cui entrambe le parti hanno la propria sede di attività in Paesi contraenti, in caso contrario, non si applicherà la disciplina uniforme ma il diritto nazionale delle vendite designato dalle norme di conflitto[35]. Il tema della riserva all’articolo 1, lett. b) CISG risulta essere complesso, in quanto la sua applicazione pratica ha sollevato dubbi di non poca importanza. A quest’ultimo riguardo bisogna considerare la situazione in cui un giudice di un Paese firmatario senza riserva debba applicare, sulla base del diritto internazionale privato di conflitto, il diritto di uno Stato che ha invece dichiarato tale riserva. Ci si deve quindi chiedere se la CISG debba essere applicata nonostante lo Stato della legge applicabile abbia dichiarato di non essere vincolato a tale disposizione o meno. 

Da un lato, parte della dottrina ritiene che l’articolo 95 CISG si limiti ad affermare che lo Stato riservatario non è vincolato dall’articolo 1, lett. b) CISG, ma questo non pregiudicherebbe l’applicazione di tale norma da parte dei tribunali di Stati non riservatari. Un secondo orientamento sostiene la posizione secondo cui designando la legge di uno Stato riservatario come applicabile, il giudice adito nel caso di specie dovrebbe applicare tale legge come farebbero i tribunali di quello Stato. Ciò comporterebbe che il giudice debba comunque rispettare tale riserva, applicando la disciplina nazionale delle vendite di questo Stato e non la CISG. Al contrario, si deve valutare anche la situazione in cui il foro sia situato in uno Stato contraente riservatario, e le norme di diritto internazionale privato conducano all’applicazione della legge di un Paese contraente senza riserva. Anche in questo caso la dottrina è divisa tra autori che sostengono che la CISG trovi applicazione nel caso di specie, ed altri che preferiscono negare l’applicazione della legislazione uniforme in favore della normativa nazionale dello Stato contraente non riservatario. 

Traendo alcune considerazioni, si nota come l’applicazione diretta di cui alla lettera a) è di più facile determinazione poiché l’organo giurisdizionale non ha bisogno di interrogarsi ed applicare norme sui conflitti di legge. Semplicemente, dovrà accertarsi che si tratti di due diversi Stati contraenti, e allora applicherà la CISG. L’articolo 1, lett. b) era stato pensato dai redattori la Convenzione con l’idea di garantire la più ampia applicazione possibile della normativa uniforme. Agli inizi, infatti, i Paesi firmatari non erano molti e risultava difficile aver di fronte parti di due diversi Stati contraenti. Oggi, con la grande crescita delle ratifiche al testo convenzionale, l’articolo 1, comma 1, lett. a) è diventata sempre più la norma, di conseguenza l’applicazione indiretta ai sensi della lettera b) è diminuita di importanza[36]

Sempre con riguardo ai criteri di applicazione territoriale, l’articolo 1, comma 3 CISG[37]chiarisce che la nazionalità delle parti non viene in alcun modo presa in considerazione a tal fine. La Convenzione, pertanto, troverà applicazione anche qualora vengano in gioco cittadini di Stati non contraenti, a condizioni però che abbiano il proprio place of business all’interno di Stati ratificanti. In altre parole, la Convenzione di Vienna si concentra sull’ubicazione fisica dell’attività delle parti, togliendo qualsiasi valore alla loro cittadinanza. Questo è sicuramente un vantaggio per il commercio internazionale in quanto esonera inutili indagini sulla nazionalità delle altre parti contraenti e, in particolare, dalla questione spesso difficile di determinare la nazionalità di una persona giuridica. Che le parti abbiano le rispettive sedi di attività in Stati diversi è un fattore imprescindibile per l’applicazione della Convenzione.

Tuttavia, vi possono essere casi in cui questa internazionalità sia invisibile o persino camuffata. La CISG richiede però che tale internazionalità sia visibile e conoscibile alle parti al più tardi al momento della conclusione del contratto. Una restrizione in tal senso è fatta dall’articolo 1, comma 2 CISG[38]che limita l’applicazione della Convenzione ai casi in cui entrambe le parti siano a conoscenza dell’elemento straniero della loro transazione. Il criterio per determinare l’eventuale occultamento dell’elemento internazionale è però controverso.

Secondo taluni autori il livello di conoscenza deve essere esclusivamente oggettivo, e quindi dipendere da fatti direttamente risultanti dal contratto o da elementi comunque divulgati tra le parti. Questo orientamento evita di imporre un onore eccessivamente gravoso di indagine nei confronti della parte che ignora incolpevolmente l’internazionalità dello scambio. Secondo una diversa corrente di pensiero la conoscibilità deve essere rilevata non solo da dati oggettivi, ma da qualsiasi circostanza od evento verificatosi prima o al momento della conclusione del rapporto contrattuale.  

Questa definizione oltre ad imporre un onere di indagine in capo alle parti, pone la difficoltà di stabilire quali fatti o informazioni siano rilevanti a tal fine: ad esempio si può pensare al caso in cui il pagamento dev’essere effettuato nei confronti di una società estera o in valute estere, oppure riferirsi ai requisiti dell’imballaggio i quali possono indicare che è previsto un viaggio transfrontaliero, e ancora, si può pensare alla situazione in cui le trattative vengano portate avanti in una lingua straniera. A parere del presente autore, questa seconda scuola di pensiero non è da seguire. In primo luogo, poiché non ritengo corretto imporre un onere attivo di indagine – per assicurarsi della non applicabilità della CISG - in capo alle parti riguardo all’internazionalità del rapporto che fuoriesca dai dati che emergono dal contratto.

In secondo luogo, gli elementi intesi come indicatori di internazionalità possono essere fuorvianti: ad esempio, il fatto che una merce debba essere trasferita da un Paese ad un altro non necessariamente indica che le sedi di attività delle parti siano collocate in Stati differenti, e viceversa, il trasferimento all’interno di uno stesso Paese non indica la mancanza di internazionalità.

Applicare questo secondo orientamento vorrebbe dire rendere spesso incerta l’applicazione della disciplina uniforme. Al contrario, un argomento a favore della visione opposta potrebbe essere ricavato dall’articolo 8, c. 3 CISG il quale individua alcuni elementi che dovrebbero essere tenuti in considerazione nel determinare l’intenzione delle parti.

La norma si riferisce a tutte le circostanze pertinenti del caso e menziona espressamente le trattative, le abitudini instauratesi e qualsiasi comportamento ulteriore delle parti. Seguendo tale approccio tornerebbero allora acquisire rilevanza, insieme ai dati oggettivi, tutte le alte circostanze derivanti dal rapporto contrattuale. Una questione importante da esaminare avuto riguardo a tale articolo è il concetto di place of business.

Tale nozione non è infatti definita dalla Convenzione, pertanto diviene necessaria una sua concretizzazione da parte della giurisprudenza internazionale. Concretizzazione che si auspica sia basata su di una interpretazione internazionalmente autonoma ai sensi dell’articolo 7, comma 1 CISG, e che si discosti dagli istituti propri dei vari ordinamenti domestici chiamati in causa. Seppur alla luce di qualche incertezza, alcuni punti possono darsi per pacifici. In primis si deve trattare di una situazione di permanenza ed abitualità del luogo, e non di una semplice presenza temporanea. In secondo luogo, parlando di place of business non ci si riferisce al semplice luogo in cui le parti hanno intrattenuto i negoziati o stipulato l’accordo[39].  

Secondo una corrente minoritaria questo termine farebbe riferimento ad un’organizzazione aziendale permanente e stabile. Altri autori così come la giurisprudenza maggioritaria preferiscono attribuire al termine “place of business” il significato di luogo permanente, stabile e regolare dell’attività commerciale o imprenditoriale, cioè il luogo abituale di produzione di beni o servizi, che non è necessariamente la sede della società ma può essere un’agenzia o una filiale. Seguendo questo secondo orientamento emerge quindi un concetto molto materiale e pratico: non bisogna guardare alla sede dell’impresa, ma al luogo in cui i l’attività viene materialmente svolta, cioè il luogo in cui i beni vengono prodotti.  

6. Ambito di applicazione soggettivo

Arrivando ad esaminare l’ambito di applicazione soggettivo va detto che la disciplina della vendita transfrontaliera non si risolve esclusivamente nelle regole dettate dalla Convenzione. Ai sensi dell’articolo 2, lett. a) CISG[40] la disciplina uniforme non si applica alla vendita per uso personale. In altre parole, tale norma esclude dal campo di applicazione della disciplina uniforme le vendite cd. business to consumer. Questo anche nel caso in cui sia presente l’elemento di internazionalità di cui all’articolo 1 CISG, ossia quando le parti hanno il loro place of business – od eventualmente la propria residenza – in diversi Stati contraenti. 

Come regola generale, quindi, la CISG trova applicazione esclusivamente ai contratti business to business, cioè quando la transazione riguarda la vendita di una determinata merce acquistata da una parte per un uso aziendale o professionale. L’esclusione delle vendite ai consumatori è stata pensato con lo scopo di evitare contrasti e problemi di coordinamento tra la Convenzione e le norme imperative del diritto domestico.

Si può notare infatti come molti ordinamenti abbiano sviluppato regole speciali volte a proteggere i consumatori. I redattori della Convenzione hanno pertanto preferito che questa non interferisse con la normativa consumeristica interna. Inoltre, i diritti nazionali in materia si diversificano notevolmente da Paese a Paese: in alcuni si scorge una scarsa protezione nei confronti dei consumatori, in altri, al contrario, sono richiesti doveri di cura molto più stringenti da parte dei venditori. È questo un altro motivo per cui la Convenzione ha preferito escludere dal suo ambito di applicazione tale materia.

Sarebbe stato molto difficile tentare di raggiungere un compromesso ed unificare anche la disciplina consumeristica in un così eterogeneo scenario[41]. Se i beni sono acquistati per uso personale, familiare o domestico la Convenzione non si applica, salvo il caso in cui il venditore non conoscesse tale fine dell’acquirente e non vi fosse motivo per lui di sapere che i beni fossero stati acquistati per tale uso Ciò significa che la Convenzione non si applica solo se l’uso personale, familiare o domestico era noto o evidente al venditore[42]

Questa precisazione è stata ritenuta necessaria poiché possono crearsi situazione in cui il venditore è incolpevolmente portato a considerare la vendita come commerciale, mentre in realtà, lo scopo dell’acquirente è meramente personale. Si può pensare a tal riguardo alle situazioni in cui la quantità e qualità dei beni ordinati o l’indirizzo cui deve essere effettuata la consegna appaino inusuali in un rapporto business to consumer.

Inoltre – come detto per l’elemento dell’internazionalità – potrebbero poi venire in rilievo, sulla base dell’articolo 8, c. 3 CISG, anche le ulteriori circostanze avvenute nel corso delle trattative, le quali risultino parimenti inusuali in un rapporto di tipo commerciale. In questo caso, si fa salvo l’incolpevole affidamento del venditore e la CISG torna ad applicarsi nonostante la natura del contratto. Lo scenario aperto dall’articolo 2, lett. a) CISG ha però dato vita a molteplici interrogativi. Innanzitutto, ci si deve chiedere su quale parte ricada l’onere di dimostrare che i beni sono stati acquistati per un uso personale. Più in particolare, si è posta la questione della sussistenza di un obbligo del venditore di accertarsi della natura personale dell’acquisto.

Inoltre, ci si è anche chiesti su quale parte ricada l’onere di dimostrare che il venditore non sapeva né avrebbe dovuto sapere l’uso a cui tali beni erano destinati. Con riferimento alla prima domanda un orientamento può pervenirsi da una decisione della Corte d’appello di Hamm[43], la quale ha stabilito che l’onere di provare la natura commerciale – e quindi non personale - della transazione non ricade sul venditore, in quanto non è previsto a suo carico alcun obbligo di informarsi sulla destinazione d’uso della merce vendute. Spetterà all’acquirente dimostrare, per assicurarsi della non applicabilità della CISG, la natura business to consumer dello scambio.   Al contrario, il venditore sarà tenuto a provare la propria ignoranza in merito alla destinazione non professionale dell’acquisto.


Note e riferimenti bibliografici

[1] L.A. DIMATTEO, A. JANSSEN, U. MAGNUS e R. SCHULZE, Introduction, in L.A. DIMATTEO, A. JANSSEN, U. MAGNUS e R. SCHULZE, International sales law: contract, principles & practice, Baden – Baden, Nomos, 2015, p. 1

[2] H.J. BERMAN, The uniform Law on International Sale of Goods: A Constructive Critique, Law and Contemporary Problems, vol. 30, 1965, p. 345

[3] F. FERRARI, PIL and CISG: friends or foes?, Journal of Law & Commerce, vol. 31, 2012 – 2013, pp. 45 ss.

a[4] E. FERRANTE, La vendita nell’unità del sistema ordinamentale, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2018, pp. 19 - 20

[6] Un resoconto sempre aggiornato degli Stati aderenti alla Convenzione si legge in https://uncitral.un.org/en/texts/salegoods/conventions/sale_of_goods/cisg/status

[5] E. FERRANTE, La vendita nell’unità del sistema ordinamentale, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2018, pp. 63 – 64, cit.

[7] K.H. NEUMAYER, C. MING, Convention de Vienne sur les contrats de vente international de marchandises, Paris, CEDIDAC, 1993, p. 11

[8] L.A. DIMATTEO, Global Challenge of International Sales Law, in L.A. DIMATTEO, International sales law: a global challenge, New York, Cambridge university press, 2014, p. 7

[9] E. FERRANTE, La vendita nell’unità del sistema ordinamentale, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2018, pp. 66 ss.

[10] E. RABEL, Das Recht des Warenkaufs, vol. 1(1936), vol. 2 (1957), Berlin, De Gruyter

[11] P. HUBER e A. MULLIS, The CISG: A New Textbook for Students and Practitioners, Sellier European Law Pub., 2007, p. 3

[12] Le convenzioni dell’Aja sono state ratificate da: Italia, Repubblica fedreale tedesca (Germania ovest), Belgio, Gambia, Israele (esclusivamente per la LUVI), Lussemburgo, Paesi Bassi e San Marino. Il Regno Unito le ha ratificate invece con riserva, nel senso che esse si sarebbero applicate solo se le parti in gioco lo avessero previsto espressamente. Da notare come solo la Francia, tra i Paesi fondatori la CEE, non vi abbia aderito.

[13] J. HONNOLD, Introduction to the Symposium, Cornell International Law Journal, vol. 21, 1998, p. 419

[14] K.H. NADELMANN, The Uniform Law on the International Sale of Goods: A Conflict of Laws Imbroglio, Yale Law Journal, vol. 74, 1965, p. 449

[15] Sulla storia e preistoria della CISG sono molti gli autori ad aver scritto, per un amplius sulla materia cfr. P. SCHLECHTRIEM e I. SCHWENZER, Commentary on the UN Convention on the International Sale of Goods, New York, Oxford university press, 2010, introduction § 1 ss.

[16] K. BELL, The Sphere of Application of the Vienna Convention on Conracts for the Internatioanl Sale of Goods, Pace International Law Review, vol. 8, 1996, p. 249

[17] Articolo 1, comma 1, prima parte CISG “This Convention applies to contracts of sale of goods […]

[18] In questo senso Officine Maraldi S.p.A. v. Intessa BCI S.p.A. et al., Tribunale di Forlì, Italy, 16 febbraio 2009, CISG – online 1780 (“di tale rapporto [contratto di compravendita] la Convenzione non dà alcuna definizione […] a tale riguardo, non appare corretto richiamare la nozione fornita dal diritto domestico […]; il concetto di compravendita previsto dalla Convenzione deve piuttosto essere ricavato in modo autonomo”)

[19] Cfr. Ostroznik Savo et al. v. La Faraona soc. coop. A.r.l. et al., Tribunale di Padova, Italy, 11 gennaio 2005, CISG – online 967 “[…] occorre che il contratto sia un contratto di compravendita, di cui tuttavia la Convenzione non da alcuna definizione. La mancanza di una definizione espressa non deve però indurre a ricorrere ad una definizione nazionale […]. Il concetto di compravendita previsto dalla Convenzione deve piuttosto essere ricavato […] in modo autonomo, ossia senza ricorrere a categorie peculiari di un determinato ordinamento. A tale proposito diventa rilevante il disposto degli articoli 30 e 53 della Convenzione, da cui si evince che è contratto di compravendita, alla luce della Convenzione, il contratto in forza del quale il venditore è obbligato a consegnare i beni, trasferirne la proprietà ed eventualmente rilasciare tutti i documenti relativi ad essi, mentre il compratore è obbligato a pagare il prezzo ed a prendere in consegna i beni”.

[20] Un riscontro in tal senso può trovarsi nel testo convenzionale dove l’articolo 35, comma 2 prevede: “Except where the parties have agreed otherwise, the goods do not conform with the contract unless they: […] c) possess the qualities of goods which the seller has held out to the buyer as a sample or model

[21] Articolo 3, comma 1 CISG “Contracts for the supply of goods to be manufactured or produced are to be considered sales unless the party who orders the goods undertakes to supply a substantial part of the materials necessary for such manufacture or production

[22] Articolo 3, comma 2 CISG “This Convention does not apply to contracts in which the preponderant part of the obligations of the party who furnishes the goods consist in the supply of labour or other services

[23] P. HUBER e A. MULLIS, The CISG: A New Textbook for Students and Practitioners, Sellier European Law Pub., 2007, p. 44

[24] German equipment Case, Tribunal of International Commercial Arbitration at the Russian Federation Chamber of Commerce and Industry, Russia, 30 maggio 2000, CISG – online 1077

[25] Brushes and brooms Case, Oberster Gerichtshof, Austria, 27 ottobre 1994, CISG – online 133

[26] P. SCHLECHTRIEM e I. SCHWENZER, Commentary on the UN Convention on the International Sale of Goods, New York, Oxford university press, 2010, art. 1, § 20 ss.

[27] Articolo 2 CISG “This Convention does not apply to sales: […] b) by auction; c) on execution or otherwise by authority of law; d) of stocks, shares, investments securities, negotiable instruments or money; e) of ships, vessels, hovercraft or aircraft; f) of electricity

[28] Articolo 1, comma 1, CISG “This Convention applies to contracts of sale of goods between parties whose places of business are in different States

 [29] Articolo 1, comma 1, lett. a) CISG: “the State are contracting States” 

[30] K. BELL, The Sphere of Application of the Vienna Convention on Conracts for the Internatioanl Sale of Goods, Pace International Law Review, vol. 8, 1996, p. 245. Per un riferimento giurisprudenziale: Vision Systems, Inc. v. EMC Corp., Superior Court of the State of Massachusetts, USA, 28 febbraio 2005, CISG – online 1005; Tickets for the Soccer World Cup final 1990 Case, Oberlandeshericht Koln, Germany, 27 novembre 1991, CISG – online 31

[31] Articolo 10, lett. a) CISG: “if a party has more than one place of business, the place of business is that which has the closest relationship to the contract and its performance […]

[32] Asante Technologies, Inc. v. PMC-Sierra, Inc., U.S. District Court for the Northern District of California, USA, 30 luglio 2001, CISG – online 616

[33] Articolo 10, comma 1, lett. b): “the rules of private international law lead to the application of the law a contracting State

[34] L. SPAGNOLO, The Last Outpost: Automatic CISG Opt Outs, Misapplications and the Costs of Ignoring the Vienna Sales Convention for Australian Lawyers, Melbourne Journal of International Law, vol. 10, 2009, p. 143

[35] . SCHLECHTRIEM e P. BUTLER, UN law on international sales: the UN – convention on the international sale of goods, Berlin, Springer, 2009, p. 17 § 18

[36] O. MEYER, The CISG: Divergences between Success-Scarcity and Theory-Practice, in L.A. DIMATTEO, International sales law: a global challenge, New York, Cambridge university press, 2014, p. 25

[37] Articolo 1, comma 3 CISG “neither the nationality of the parties […] is to be taken into consideration in determining the application of this Convention

[38] Articolo 1, comma 2 CISG “the fact that the parties have their palces of business in different States is to be disregarded whenever this fact does not appear either from the contract of from any dealings between, or from information disclosed by, the parties at any time before or at the conclusion of the contract

[39] A. ROSETT, Critical Reflections on the United Nations Convention on Contracts for the International Sale of Goods, Ohio State Law Journal, vol. 45, 1984, p. 279

[40] Articolo 2, lett. a): “this convention does not apply to sales: of goods bought for personal, family or household use, unless the seller, at any time before or at the conclusion of the contract, neither knew nor ought to have know that the goods were bought for any such use

[41] D. MEMMO, Il contratto di Vendita internazionale nel Diritto Uniforme, Riv. Trim. Dir. E Proc. Civ., 1983, p. 193 ss.

[42] Used car Case II, Oberlandesgericht Hamm, Germany, 02 aprile 2009, CISG – online 1978; Used repainted car Case, Oberlandesgericht Stuttgart, Germany, 31 marzo 2008, CISG – online 1658

[43] Used car Case II, Oberlandesgericht Hamm, Germany, 02 aprile 2009, CISG – online 1978